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(OCSO e OCist, sett. e ott. 2022)

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Fratelli tutti,
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La formazione monastica oggi
(2a parte)

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La formazione monastica oggi
(1a parte)

Avere rispetto per gli anziani, amare i giovani

Estratto del Bollettino dell’AIM • 2019 • No 117

Riepilogo

Editorial

Dom J.-P. Longeat, OSB, Président de l’AIM

Lectio divina

Il giovane ricco (Mt 19, 16-26)

Madre Escolástica Ottoni de Mattos, OSB

Questo articolo non è stato tradotto in italiano. Vedi un'altra lingua.

Meditazione

Giovani, fede e discernimento vocazionale. L'arte del discernimento (estratto)

Documento finale del Sinodo dei vescovi


Testimonianza

• Essere monaco in un monachesimo giovane

Dom Alex Echeandía, OSB (Lurín)


• Diventare se stessi nel monastero

S. M.-T. dos Santos, OSB (Encontro)

Questo articolo non è stato tradotto in italiano. Vedi un'altra lingua.

• Un'esperienza di libertà interiore in vista dell'unione con Dio

Frère Edmond Zongo, OSB (Koubri)

Questo articolo non è stato tradotto in italiano. Vedi un'altra lingua.

• La fragilità e la forza di una comunità monastica

Fratel Nichodemus Ohanebo, OSB (Ewu)


• In Sudafrica, sfide e gioie della vita monastica

Suor Antoinette Ndubane, OSB (Elukwatini)


• Il primo passo nella vita monastica

Suor Rosa Ciin, OSB (Shanti Nilayam)

Questo articolo non è stato tradotto in italiano. Vedi un'altra lingua.

Aprirsi al mondo

Giovani, fede e discernimento vocazionale. Parte 1, Capitolo 2

Documento finale del Sinodo dei vescovi


Economia e vita monastica

• Contributi del monastero di Bafor allo sviluppo locale

Dott.ssa Katrin Langewiesche


Liturgia

Vita monastica e poesia

Suor Thérèse-Marie Dupagne, OSB

Questo articolo non è stato tradotto in italiano. Vedi un'altra lingua.

Monaci e monache, testimoni per il nostro tempo

Geronda Aimilianos

Ieromonaco Serapione


Notizie

• Viaggio nella Cina continentale

Dom Jean-Pierre Longeat, OSB


• Viaggio in Ciad

Suor Christine Conrath, OSB


• Incontro di comunità contemplative in Madagascar e nell'Oceano Indiano

Suor Agnès Brugère, OSB

Questo articolo non è stato tradotto in italiano. Vedi un'altra lingua.

• Sessione ABECCA

Dom Alex Echeandía, OSB

Questo articolo non è stato tradotto in italiano. Vedi un'altra lingua.

• Percorso di formazione «Ananie»

Fratel Moïse Ilboudo, OSB

Sommaire

Editoriale

Uno degli elementi più distintivi della vita di una comunità monastica è il fatto che generazioni diverse vivano le une a fianco delle altre. Questa esperienza di prossimità intra-generazionale si è certamente accentuata, soprattutto in Occidente, a causa dell’allungamento della vita. La società moderna ha optato piuttosto per separare tra loro le generazioni, mentre le comunità monastiche mantengono ancora, nella misura del possibile, l’abitudine di una vita comune inter-generazionale. Molto spesso ci si trova di fronte a comunità formate da quattro e persino cinque generazioni.

Questo numero del Bollettino dell’AIM, facendo eco all’ultimo Sinodo su «I giovani, la fede e il discernimento vocazionale», presenta qualche aspetto di questa tematica in relazione alla vita monastica. Abbiamo raccolto alcune testimonianze provenienti da vari continenti per cogliere quello che è il sentire comune dei giovani monaci e delle giovani monache in quello che è il loro impegno monastico nel tempo attuale. Ciascuno ha interpretato a suo modo la domanda di fondo che verteva sulla visione che un giovane può avere della vita monastica nel contesto del paese e della cultura nelle quali è immerso. Siamo così messi di fronte a una grande diversità di approcci!

Diverse rubriche e un po’ di notizie confluiscono nella parte restante di questo numero.

Padre Jean-Pierre Longeat, OSB

Presidente dell’AIM

Articoli

Avere rispetto per gli anziani, amare i giovani

1

Padre Jean-Pierre Longeat, OSB

Presidente dell’AIM


Avere rispetto per gli anziani, amare i giovani

RB 4,70,71 ; 63,10

 

 

Prima di tutto ascoltiamo ciò che ci viene detto da san Benedetto sul nostro tema. San Benedetto è attento soprattutto al buon equilibrio che deve regnare all’interno della comunità a partire dall’apporto dei giovani unitamente a quello dei fratelli e delle sorelle più anziani. Nel capitolo quarto in cui si tratta degli strumenti dell’arte spirituale troviamo questa ingiunzione: «Avere rispetto per gli anziani, amare i giovani» (4,70-71). Si tratta di modulare le reazioni degli uni e degli altri in una reciproca attenzione.

Fin dall’inizio della Regola di san Benedetto, il monaco viene presentato come un figlio in ascolto di suo Padre. Com’è noto si tratta di una citazione del libro dei Proverbi (1,8), ma soprattutto è una disposizione evangelica. Gesù stesso mantiene un rapporto filiale con suo Padre che è pure nostro Padre e, proprio a partire da questo, invita anche ciascuno di noi a vivere come figli amati di questo Padre che ci ama. Non importa quale sia l’età di un monaco, di una monaca, di un discepolo di Cristo, che resta sempre come un figlio, una figlia in ascolto di Colui da cui riceve ogni cosa.

Il capitolo settimo sull’umiltà ritorna su questo punto. Il monaco viene definito come un figlio che riposa serenamente in seno alla propria madre, come il discepolo in continuo ascolto del suo Dio (cf. Sal 130). A ben pensarsi si tratta di una sorprendente definizione del monaco. Non bisogna fare altro se non riposare in Dio come un bambino, come un neonato attaccato al seno di sua madre senza avere il cuore orgoglioso né lo sguardo ambizioso. Così pure non bisogna coltivare progetti autonomi contando sulle proprie forze. Con questo atteggiamento di fiducia e di fede si acquisisce progressivamente una certa maturità tanto che, come recita il dodicesimo grado dell’umiltà, «il monaco raggiungerà quell’amore di Dio che, giunto a pienezza, dissipa ogni timore» (RB 7,67). In questo consiste il cammino di ogni vita monastica.

La scuola che san Benedetto vuole fondare, per tutti coloro che si mettono in questa disposizione, permette di intravedere una corsa sulla via dei comandamenti: «Man mano che ci si inoltra nel cammino della vita monastica e della fede, si corre sulla via dei comandamenti del Signore col cuore dilatato [sempre più giovane…] dalla dolcezza inesprimibile dell’amore» (RB Prol. 49). Non è certo garantito che questo si verifichi sempre e per tutti, ma comunque è l’orizzonte che Benedetto prospetta… Resta il fatto che nessuno può valutare dall’esterno ciò che avviene nell’intimo del cuore di ciascuno: solo Dio lo sa!

Portando avanti il suo proposito, san Benedetto presenta i monaci cenobiti come dei principianti (RB 1 e RB 73) che combattono nei ranghi di una milizia fraterna. Progressivamente costoro vanno oltre il semplice fervore degli inizi per entrare in una lotta contro le prove interiori fino a diventare, con l’età, più autonomi. Alcuni possono persino aspirare alla vita eremitica. Si può constatare d’altronde, nei nostri monasteri, che la maggior parte degli anziani finiscono i loro giorni in una certa forma di solitudine che viene vissuta sia nel quadro particolare dell’infermeria, sia nella normalità della vita corrente. I fratelli anziani, anche quando rimangono inseriti nella vita comunitaria, acquisiscono una certa distanza riguardo a tutto ciò che avviene e tocca la comunità nel suo insieme e soprattutto i più giovani, fino a prendere le distanze da tutte le liti, gli scontri e tutte quelle discussioni necessarie della vita quotidiana che, in realtà, sono sempre molto relative. Questa libertà molto spesso permette agli anziani di coltivare una bella complicità con i più giovani e questo perché, in fondo, i primi non hanno più niente da perdere e i secondi non hanno ancora tanto da perdere.

San Benedetto è ben consapevole dell’apporto specifico degli uni e degli altri alla vita della comunità ed è per questo che ci tiene al fatto che tutti siano consultati nel caso si debba discutere di un problema importante che riguardi la vita del monastero (RB 3,1). Per questo precisa: «Abbiamo detto di convocare tutti a consiglio, perché spesso il Signore rivela al più giovane la decisione migliore» (3,3). È veramente bello sentirsi dire qualcosa del genere da un uomo sperimentato come Benedetto! Lungi dal pensare il fatto di riconoscersi figli di Dio come una condizione di dipendenza irresponsabile, l’autore della Regola precisa, al contrario, che il fatto di essere giovane in una comunità è anche un appello ad assumere pienamente il proprio ruolo con questa caratteristica propria. Come siamo lontani dal funzionamento infantilizzante che vediamo innescarsi così spesso nelle nostre sante istituzioni! Nelle nostre comunità succede – soprattutto nell’emisfero Nord – che anche quando si è ormai passata la cinquantina si considerino i fratelli ancora come dei giovanetti che non hanno il diritto di esprimere un parere divergente. Questo non è altro che una forma di infantilismo ed è bene combatterlo vigorosamente. Questo vale soprattutto se consideriamo che i “giovani” che entrano nelle nostre comunità possono essere degli adulti di trenta, quarant’anni e persino di più che hanno alle spalle diverse esperienze già vissute.

Dopo aver tratteggiato il suo ideale spirituale nei primi capitoli della Regola, san Benedetto tratta di questioni pratiche che gli danno l’occasione di declinare praticamente i grandi orientamenti presentati all’inizio.

È il caso del capitolo ventiduesimo dove san Benedetto sottolinea l’importanza di mescolare tra loro le generazioni e lo fa parlando nientemeno che del sonno dei monaci: «I fratelli più giovani non abbiano i letti tutti vicini, ma frammisti agli anziani» (RB 22,7). Siamo in un’epoca in cui c’era ancora il dormitorio comune. Si tratta concretamente di evitare le ambiguità delle relazioni tra giovani e approfittare inoltre dell’incoraggiamento che può venire da quanti sono più agguerriti di quanto lo possano essere i principianti, come pure di sostenere i più anziani per non far perdere a questi ultimi lo slancio della giovinezza. Questo tipo di scelta è certamente molto distante dalla mentalità del nostro tempo in cui temiamo di più gli abusi da parte di persone adulte nei confronti dei più giovani! Bisogna misurare tutto a partire da questo timore? Il reciproco incoraggiamento tra generazioni deve trovare delle mediazioni relazionali che non sono mai del tutto esenti dal pericolo di abusi. Nel quadro della vita dei monasteri, mettendo da parte quelli che hanno delle strutture educative, l’abuso potrebbe per lo più consistere in qualche deriva omosessuale. La vigilanza e la correzione sono assolutamente necessarie, nondimeno ciò non deve impedire lo scambio di ricchezze all’interno della comunità.

Nei monasteri di san Benedetto c’erano anche dei bambini che venivano affidati ai monaci da parte delle loro famiglie perché ricevessero una buona istruzione (cf. RB 59). I ragazzi venivano trattati nello stesso modo dei monaci quando commettevano errori più o meno gravi. Anche per loro si applicava la punizione di essere separati dal resto della comunità per un certo tempo e, nel caso in cui non erano in grado di comprendere la gravità di questa pena, si riservava loro un trattamento più rude. San Benedetto crede alla capacità di percezione spirituale di tutta questa giovinezza che popola il monastero e di cui non era certo facile prendersi cura (RB 20).

Il capitolo cinquantottesimo sull’accoglienza dei nuovi membri della comunità è indubbiamente quello in cui possiamo comprendere meglio ciò che san Benedetto pensa circa i giovani monaci. Prima di tutto, l’ingresso in comunità non si permette con facilità: «Mettete alla prova gli spiriti per vedere se sono da Dio» (RB 58,2). Questa nota si oppone all’attitudine che riscontriamo troppo spesso con l’eccessiva facilità con cui si ricevono i candidati alla vita monastica. È un’esperienza esigente che ha bisogno di essere messa alla prova per prendere coscienza di ciò che c’è veramente in gioco.

Ai tempi di san Benedetto, prima di tutto è previsto un tempo di accoglienza in foresteria per quanti bussano alla porta del monastero e, in caso perseverino, li si introduce nella parte del monastero in cui vivono i novizi; questi vivono veramente a parte poiché dormono, mangiano e si dedicano alle pratiche spirituali in un luogo a parte.

Un fratello anziano e sperimentato che «sappia guadagnare le anime» sarà designato per l’accompagnamento dei novizi. Per questo accompagnamento vengono offerti tre criteri: esaminare se il giovane cerca veramente Dio, se si dedica con fervore alla Liturgia, se vive l’obbedienza ed è capace di affrontare le contrarietà che non mancano mai.

Si può così prendere atto da una parte che in monastero i giovani non sono dei principini, ma dall’altra che si tiene ben conto dei loro particolari bisogni: ecco perché vengono formati a parte sotto la guida di un anziano. Si entra gradualmente nella comunità con una particolare attenzione al cammino interiore. Questo contrasta con la nostra sensibilità che cerca di integrare il più possibile i nuovi nella vita di tutta la comunità valorizzandone l’apporto specifico. Indubbiamente bisogna trovare un buon equilibrio tra queste due posizioni e questo rappresenta una sfida importante per la vita monastica dei nostri giorni. Non si misura adeguatamente il divario di mentalità tra generazioni nel mondo contemporaneo; un divario che si approfondisce in modo accelerato e richiede per questo delle tappe di avvicinamento reciproco che permettano un dialogo sano tra persone di diverse età e talora di culture diverse, chiamati a confrontarsi con la mediazione della stessa Regola.

Queste progressiva integrazione diventa ancora più importante a motivo del fatto che il valore dell’impegno come quello espresso dai voti monastici è attualmente assai relativizzato. Non è raro vedere dei fratelli o delle sorelle rimettere in causa il loro impegno senza troppi scrupoli e questo dopo aver fatto professione solennemente. Alcuni arrivano persino a lasciare il monastero senza nessun preavviso dando prova di un comportamento che sarebbe impensabile in qualunque ambito professionale. Questo perché l’impegno nella vita monastica viene sempre più percepito come parte della vita privata nello stesso modo in cui si vivono i legami familiari che si possono oggigiorno fare e disfare sempre più facilmente.

San Benedetto evoca anche il posto di ciascuno nell’ordine della comunità (RB 63) e stabilisce che questo sia legato all’anzianità rispetto all’ingresso in monastero e non all’età anagrafica e meno ancora a quelle che possono essere le differenze sociali. Così «per esempio, uno che è entrato in monastero alla seconda ora del giorno si deve ritenere più giovane di chi è entrato alla prima ora del giorno» (63,8). Benedetto ricorda anche che: «L’età non deve in nessun luogo assolutamente essere un criterio determinante o comunque condizionante l’ordine dei posti, perché Samuele e Daniele, ancora fanciulli, giudicarono gli anziani» (63,5-6). In questo stesso capitolo, in aggiunta a quanto già detto nel capitolo quarto, san Benedetto ripete che i giovani devono onorare gli anziani e che gli anziani saranno pieni di affetto nei confronti dei giovani. In questo senso rammenta delle regole da osservare nella vita fraterna che non sono certo irrilevanti per la vita ordinaria: il fatto per esempio di chiamare i giovani con l’appellativo di “fratello” o “sorella” mentre agli anziani ci si rivolge chiamandoli “nonno e nonna” che, in italiano, è diventato di uso consueto nelle famiglie. Il primo termine indica da parte degli anziani un riconoscimento di fraternità in Cristo e non certo una superiorità paterna o materna. Il secondo manifesta al contempo il rispetto senza che venga a mancare una certa familiarità. Si potrebbe interpretare infatti come “papino, mammina”. Probabilmente non è certo questa la maniera più adeguata per esprimersi nei nostri monasteri oggigiorno, ma forse dovremmo essere in grado di trovare delle espressioni equivalenti.

San Benedetto ricorda pure alcune semplici modalità come, ad esempio, il modo di salutarsi quando ci si incrocia. In tal caso il fratello più giovane deve prendere l’iniziativa. Nella Regola questo si traduce chiedendo la benedizione di Dio attraverso la mediazione dell’anziano. Così pure san Benedetto ricorda che un giovane si alzerà al passaggio di un anziano e gli cederà il posto perché si sieda. Tutti questi gesti quotidiani sono il segno di un atteggiamento generale di rispetto in modo da prevenirsi continuamente nell’onorarsi reciprocamente.

Nella società occidentale dove gli anziani sono spesso messi insieme in case dedicate a loro, l’esempio dei monasteri, dove diverse generazioni vivono le une accanto alle altre, può diventare una testimonianza. Questo a condizione che gli anziani, talora maggioritari in certe comunità del mondo occidentale, resistano alla tentazione di pensare che i giovani, sempre meno numerosi e talora persino ridotti a uno solo, siano a loro servizio! Talora sono dei giovani monaci e monache che si fanno venire dall’estero per questa ragione inconfessata!

San Benedetto, d’altronde, è molto attento al fatto che due membri della stessa famiglia (di cui spesso uno è più giovane) non prendano le difese l’uno dell’altro per evitare lo scandalo di uno squilibrio che si può così creare nel gruppo. Benedetto chiede pure che i giovani e gli anziani – a motivo della loro più grande fragilità – non vengano ripresi continuamente in modo disordinato quasi per sfogarsi.

Si può dunque dire che la regola benedettina, secondo il suo autore, è stata scritta per dei principianti come si è ricordato sopra. Per quanto in monastero tutti dovrebbero cercare di conservare un cuore da “piccolo”, animato dal desiderio di progredire sulla via del comandamento dell’amore, attraverso il reciproco incoraggiamento, il cuore di ciascuno può dilatarsi e così tutti possono correre con gioia verso lo stesso fine che è l’unione a Dio. Questa finalità mantiene in tutti quel dinamismo proprio di quanti vivono la novità e la creatività di Dio. Per una cosa del genere l’età non ha poi così tanta importanza.


Festa per le giovani Professe di Ndanda (Tanzania), congregazione delle Benedettine Missionarie di Tutzing. © AIM.
Festa per le giovani Professe di Ndanda (Tanzania), congregazione delle Benedettine Missionarie di Tutzing. © AIM.

Il giovane ricco (Mt 19, 16-26)

2

Lectio divina

Madre Escolástica Ottoni de Mattos, OSB

Abbazia di Santa Maria, San Paolo (Brasile)

 

Il giovane ricco (Mt 19, 16-26)


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Essere monaco in un monachesimo giovane

3

Testimonianza

Padre Alex Echeandía, OSB

Priore della comunità di Lurin (Perù)

 

Essere monaco in un monachesimo giovane

 

La parola esperienza è normalmente utilizzata per una persona piuttosto anziana, un uomo o una donna che ha vissuto abbastanza dentro una grande tradizione di abitudini, usi e modo di vivere. In questo senso la tradizione monastica peruviana è completamente nuova, perché è anche recente, come il primo monastero benedettino fondato qui negli anni ’60.

“Monachesimo” non era una parola conosciuta dalla Chiesa del Perù quando arrivarono gli ordini mendicanti. In realtà, la Corona spagnola non permetteva ai monaci di venire perché le Nuove Indie erano considerate terra di missione. La storia ci dice che al secondo viaggio di Cristoforo Colombo in America già c’erano i frati Francescani. Lo scopo principale era di evangelizzare il Nuovo Mondo. L’evangelizzazione richiedeva la catechesi e anche la rimozione di ogni genere di idolatria.

La cosa strana è che l’evangelizzazione fu portata avanti dai monaci molto tempo prima che gli ordini mendicanti esistessero nella Chiesa. Nella storia della Chiesa antica erano presenti celebri monaci, come san Colombano, sant’Agostino di Canterbury, san Bonifacio di Fulda e molti altri monaci che evangelizzarono l’Europa e si spinsero verso Oriente.

Il fatto che gli ordini mendicanti esistessero già alla fine del XV secolo fu determinante per la decisione spagnola di inviare soprattutto francescani e domenicani a evangelizzare l’America. E questo anche perché la vita monastica in Spagna stava attraversando un periodo di riforme. Così la Corona non chiese ai monaci di unirsi ai nuovi venti di evangelizzazione. Solo le monache degli stessi ordini erano invitate a sostenere le missioni con la loro preghiera e il loro tenore di vita. Nella storia del Perù, tuttavia, bisogna dire che ci fu un piccolo gruppo di monaci che arrivarono dalla Spagna. In effetti, dei Gerolamiti e alcuni monaci di Montserrat vennero come semplice presenza senza alcuno sviluppo futuro.

Ci fu anche, con grande sorpresa, un monastero cistercense, fondato nel XVI secolo a Lima da una madre e sua figlia, Lucretia de Sanzoles e Mencia de Vargas: Monastero della Santissima Trinità. La fondazione fu eretta da san Turibio de Mongrovejo, allora arcivescovo di Lima, con l’approvazione del Papa. Il monastero rimase attivo dal XVI secolo fino alla sua soppressione negli anni ’60 del secolo scorso. Le monache cistercensi di Las Huelgas (Spagna) arrivarono nel 1992 per rifondare il monastero cistercense alla periferia sud di Lima, a Lurin, e hanno così riportato alla vita la storia di questo monastero. Sono ritornate in Spagna nel 2017 per carenza di vocazioni e ci hanno chiesto di riprendere questo monastero dove sono seppelliti i resti mortali delle fondatrici e delle monache cistercensi. Ora viviamo in questo luogo perpetuando la storia, la tradizione e soprattutto la preghiera di una comunità monastica nella Chiesa del Perù. I fatti storici mostrano chiaramente come Dio opera in modi inaspettati.

Menziono questi fatti storici perché, dopo quattro progetti falliti provenienti da differenti paesi e congregazioni benedettine, siamo finora sopravvissuti per grazia di Dio. Siamo la prima comunità benedettina nel Perù che vive la vita monastica formata unicamente da monaci peruviani. Il monachesimo maschile è quasi sconosciuto. Tuttavia, il Signore ha ispirato degli uomini a seguire uno stile di vita che esiste fin dai primi secoli della Chiesa, e nel solco di una ricca tradizione.

Personalmente, non conosco molto riguardo alla vita monastica, visto che non c’erano molte informazioni sul monachesimo nella Chiesa del Perù. I primi Ordini arrivati nel paese erano più noti. Tuttavia, il Signore chiama uomini e donne a cercarlo nella prospettiva dinamica di una vita di preghiera e di lavoro, con l’ufficio divino, la lectio e lo studio, l’ospitalità e l’accompagnamento spirituale, all’interno del chiostro e per il mondo e la Chiesa intera.

Sono entrato in monastero quando avevo vent’anni. Incontrai una piccola comunità monastica che era stata fondata nel 1981 (solo due anni prima della mia nascita) dall’Abbazia di Belmont in Inghilterra. Fui invitato a visitarla senza conoscere l’immensa gioia che avrebbe prodotto in me la prima ora di preghiera alla quale avrei partecipato: l’ufficio di Compieta. Fui catturato e toccato nel più profondo del mio essere. Accadde qualcosa di strano e di nuovo. Feci per esperienza la conoscenza di ciò che era la vita monastica. Pregare i salmi era per me concretamente un incontro con Dio nella mia vita di fede.

Il monastero di Lurín.
Il monastero di Lurín.

Non conoscevo quasi niente della cultura monastica. Progressivamente ne appresi sempre più sulla storia, sul significato, sulla ricchezza e sul fine di questo genere di vita. Fu un incontro con Dio attraverso un cammino ben misterioso. Il Signore mi fece sperimentare la sua chiamata e la mia risposta nel contesto di una vita monastica.

Come ho detto, non c’era veramente una storia monastica nei paesi di lingua spagnola in Sud America. A differenza del Brasile, che è portoghese, gli altri paesi del Sud America accolsero le prime fondazioni monastiche solo alla fine del XIX secolo. È interessante notare che se il monachesimo è il punto di partenza della vita religiosa nella Chiesa, è invece una realtà completamente nuova nella vita religiosa del continente latino-americano.

Io stesso e la mia comunità in Perù abbiamo fatto l’esperienza della presenza di Dio man mano che ci siamo sviluppati nella terra desertica del Perù. La comunità è composta attualmente da sette monaci di voti solenni, ci sono anche due giovani in stage e un certo numero si preparano a entrare.

Il Signore mi ha chiamato a vivere la vita monastica in un tempo e in uno spazio dati. Mi ha invitato, come i miei fratelli, a seguire Cristo secondo la Regola di san Benedetto. E così la vita monastica si è stabilita nella nostra terra affinché in ogni cosa sia glorificato Dio.

Diventare se stessi nel monastero

4

Testimonianza

Suor Maria Terezinha Bezerra dos Santos, OSB

Monastero di Encontro (Brasile)

 

Diventare se stessi nel monastero

 

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Un'esperienza di libertà interiore in vista dell'unione con Dio

5

Testimonianza

Fratel Edmond Amos Zongo, OSB

Monastero di Koubri (Burkina Faso)

 

Un’esperienza di libertà interiore in vista dell'unione con Dio

 

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La fragilità e la forza di una comunità monastica

6

Testimonianze

Fratel Nichodemus Ohanebo, OSB

Monaco di Ewu-Ishan (Nigeria)

 

La fragilità e la forza

di una comunità monastica

 

In una delle belle pagine del suo libro Lettere dal deserto, Carlo Carretto scrisse: «Dio costruisce la sua Chiesa con quelle fragili pietre che siamo noi» - questo è esattamente ciò che è avvenuto e avviene nel mio monastero. La solidità di una particolare casa di Dio e di una parte del Corpo di Cristo non è dovuta alla forza delle virtù o alla debolezza del peccato dei singoli membri ma all’amore di Dio che la stima degna, per rivelare la sua volontà divina, di creare quella comunità, di stabilire un legame tra quel corpo e il più ampio Corpo di Cristo. In altre parole, non sono le deboli pietre a rendere salda la Chiesa, ma è l’amore condiscendente di Dio verso le pietre stesse.

Il monastero di San Benedetto, chiamato convenzionalmente “monastero di Ewu” per la sua collocazione sulla collina del villaggio di Ewu-Esan, nel sud della Nigeria, è una comunità maschile che vive secondo la Regola di san Benedetto da Norcia (480-547) e fa parte della congregazione benedettina cattolica romana dell’Annunciazione. Le nostre attività quotidiane vanno dalla preghiera al lavoro, dal lavoro al servizio verso gli altri e dal servizio alla condivisione della vita comune. Ma come si svolge la vita nel monastero di Ewu?

Dirò semplicemente, evitando riflessioni impegnative, che siamo un gruppo di persone determinate, abitate dalle più normali (e talvolta anche anormali) espressioni di umanità, senza eccezioni. Nella concretezza della nostra umanità diveniamo consapevoli in ogni istante della rilevanza fondamentale della vita di conversione e di dover ascoltare la Parola di Dio e prestarvi attenzione. Così come vi sono diverse piante in ogni angolo e recesso del monastero, così si possono trovare tra i monaci di Ewu – ciascuno con la sua grazia particolare – tutti i fiori della nostra variegata umanità. Tentare di comprendere i fratelli di Ewu è come scrivere un poema secondo l’ispirazione del momento, nello svolgersi progressivo degli avvenimenti quotidiani, dal momento che si raggiunge tale comprensione solo affrontando l’esistenza umana in modo naturale e realistico. I fratelli sono consapevoli e spontanei secondo differenti livelli. La nostra comunità è in continuo movimento, in ogni istante.

I fratelli del monastero di Ewu-Ishan.
I fratelli del monastero di Ewu-Ishan.

A mio parere, la vita a Ewu, è un’espressione vivente della vita cristiana, al contempo ordinaria e straordinaria, una bella miscela di esperienze ed espressioni di variegata umanità. La vita che qui si conduce è la scoperta e la riscoperta pratica di se stessi, al di là di quanto si può percepire. A Ewu, mentre preghiamo, lavoriamo e ci applichiamo a ogni genere di studio, siamo anche attenti alla persona che è ogni singolo fratello – persona che ha bisogno di essere redenta, persona che ha le sue imperfezioni, e che sa molto bene come essere se stessa, come essere me stesso. Un esempio: un vivace novizio, a causa dell’assenza di alcuni fratelli anziani, si trovò una volta seduto a tavola a fianco del priore. Al termine del pranzo, gli venne chiesto da un altro fratello come si fosse sentito; egli replicò ad alta voce: «Quasi come se fossi il vice-priore» e tutti scoppiarono a ridere. In un’altra comunità, forse, il riso si sarebbe trasformato in una ingiunzione al novizio affinché se ne andasse: la sua mancanza di umiltà era il segno che non aveva la vocazione. Ma a Ewu succedono questo tipo di cose. Questo non significa che si tollera ogni eccesso ed estremizzazione, ma che la nostra comunità non è affatto perfetta e i fratelli cercano di far vibrare l’arpa di Dio affinché risuoni nel modo migliore il canto mistico, proprio nella vita più semplice e ordinaria.

Qui a Ewu litighiamo e ci riconciliamo; abbiamo incomprensioni e discussioni, ma alla fine le nostre differenze scompaiono in una visione comune; compiamo molti errori e alcuni vengono corretti, mentre altri rimangono come una cicatrice sul volto della comunità, un volto in cui, come uno specchio, ci si rispecchia e dove verifichiamo gli effetti delle nostre scelte comunitarie sbagliate. Guardando la vita che si svolge a Ewu, attraverso gli occhi della mia fragilità, vedo alcuni limiti (se non la maggior parte) di ogni mio fratello, ma al contempo la sua potenziale santità. Grazie a questo modo di vivere, mi sembra di capire che abbiamo tutti bisogno di aiuto, ma che talvolta noi stessi possiamo essere d’aiuto agli altri, a livello spirituale e materiale, psicologico e medico, emotivo e sessuale, esperienziale e non, concreto e mistico.

Chiunque si impegna per essere meno di ciò che deve essere, si trova anche meno capace di trasformarsi nel profondo e con verità. Proprio perché a Ewu siamo una comunità di persone imperfette, secondo la mia percezione spirituale, cerchiamo di toccare con mano le nostre imperfezioni, trovare i nostri buchi neri, dar loro un nome, se possibile, e offrirli a Dio nella vita che conduciamo. Noi cerchiamo Dio, il Padre di Gesù Cristo, questo è evidente. Questo comunica a chiunque che, se sta cercando una comunità monastica perfetta, non deve venire a Ewu; ciononostante, qui è possibile incontrare qualche santo.

Non dico questo perché sono uno dei fratelli della comunità, ma perché lo constato: i fratelli di Ewu sono in cammino verso il cuore, il centro di una vita vissuta veramente in Dio. Ovviamente la comunità potrà sperimentare ancora delle crisi, come avviene normalmente in ogni gruppo umano, ma se manterrà costantemente il suo flusso di vita e di esperienza in tutta semplicità e consapevole spontaneità, farà risuonare esattamente la corda della nota che Dio, l’Assoluto, sta cantando riguardo al suo essere un corpo all’interno del più ampio Corpo di Cristo. Preghiamo perché tendiamo verso questa vetta, così che il Cristo possa essere glorificato in ogni cosa; e «possa egli condurci tutti insieme alla vita eterna» (RB 72,12).

In Sudafrica, sfide e gioie della vita monastica

7

Testimonianze

Suor Antoinette Ndubane, OSB

Comunità di Elukwatini (Sudafrica)

 

In Sudafrica,

sfide e gioie della vita monastica

 

Introduzione

Il titolo di questo articolo apre a diverse domande:

• Qual è la comprensione della vita monastica in Sudafrica?

• Cosa significa essere monaci/religiosi in Sudafrica?

• Quali sono le sfide e le gioie della vita monastica in questa regione?


La comprensione della vita monastica

Quando sono diventata benedettina nel 2002, non sapevo che stavo abbracciando la vita monastica. Pensavo di entrare in una congregazione religiosa che assomigliasse a quelle che già conoscevo. Mi ci è voluto del tempo per capire che vi è differenza tra gli istituti apostolici e gli ordini monastici. Ciononostante, può ancora esserci confusione a causa della mancanza di identità delle congregazioni. Piano piano ho compreso che vivere in un monastero non significa affatto vivere tra le mura di un edificio religioso; significa appartenervi con tutto il mio essere. Attualmente vedo il monastero come un’università o una scuola dove si studia la vita così com’è; si deve scegliere cosa si vuole imparare; ad esempio, si può scegliere di imparare solo ciò che è negativo, o imparare ciò che è buono o anche avere i due approcci contemporaneamente. Com’è possibile questo? Talvolta sento le persone dire: «All’inizio non sapevo rispondere in modo sgarbato in un confronto, ora sì». Così, è possibile imparare cose negative; ciononostante, ci sono molte realtà che possono essere coltivate: il lavoro manuale, la preghiera, uno stile di vita, come divenire un cristiano migliore e più serio, e molto altro. Un monastero è una casa di preghiera, dove vivono dei consacrati. Io lo vedo anche come un luogo dove Dio abita; ecco perché la maggior parte, se non tutti, sono ben curati. Secondo quanto ho potuto vedere fino ad ora, un monastero è una casa o una fontana da cui si può attingere ciò che si può offrire a chi non conduce questa vita; ad esempio, vi è del tempo per pregare e meditare, così che si può conoscere cosa offrire a coloro che cercano Dio e la sua grazia. Ecco perché il silenzio è tanto importante nella vita monastica; è quando sono in silenzio che posso udire la voce di Dio.

 

La vita monastica è una realtà in Sudafrica?

La vita monastica, in questa parte del mondo, sembra esserci sì e no. È certamente una realtà, perché vi sono dei monasteri e delle persone che ci vivono; ciononostante, non possiamo ignorare che vi sono davvero pochi monaci autoctoni e pochissimi sono i monasteri. Ci si potrebbe anche porre la domanda su cosa veramente comprendano della propria identità coloro che vivono nei monasteri.

Può succedere perfino che non comprendano veramente il senso della propria vocazione, nonostante la loro età o il tempo da cui sono in monastero. Le esigenze del mondo esterno pongono la domanda se la vita monastica in questa parte dell’Africa sia una realtà viva oppure no. La vita odierna ci sfida anche con domande del tipo: è possibile vivere in pienezza la vita monastica oggi, nel 2019? Dovrebbe certamente esserlo, ma come? Questa domanda potrebbe accompagnarci fino alla fine dei nostri giorni e questo aiuterebbe ad approfondire la vitalità della propria vocazione al fine di viverla meglio e nel modo in cui si è chiamati a viverla. In un qualche modo, la vita monastica resta sia straniera che ordinaria; a volte sembra sia giunta a noi su di un battello, portataci da chi la viveva, e pertanto alcuni suoi aspetti appaiono estranei alla gente del posto; altri aspetti della vita monastica sembrano essere in profonda armonia con il modo di vivere degli autoctoni; ad esempio, il rispetto e l’ospitalità e altro ancora.

 

Cosa significa essere religiosi o monaci in Sudafrica?

Penso sia normale percepirsi talvolta come se stessimo perdendo qualcosa dell’esterno; tuttavia tali pensieri non hanno presa, soprattutto quando uno percepisce il senso di appartenenza a una famiglia monastica. Uno degli aspetti più essenziali nella vita monastica o religiosa è la formazione; sia quella iniziale che quella permanente. In questa parte dell’Africa del Sud i benedettini rinnovano le istanze della formazione quando si incontrano alle riunioni della BECOSA (Benedictine Communities of South Africa - Comunità Benedettine del Sudafrica); questa realtà contribuisce non poco alla crescita spirituale e non solo dei monaci e monache che vivono in questa regione.

Ogni qual volta vi è un incontro, gli organizzatori mettono a tema qualche aspetto della formazione iniziale e permanente per i membri delle nostre comunità. Questo aiuta ad approfondire la consapevolezza di chi siamo e di come dovremmo vivere la nostra vita in quanto monaci. Credo che l’incontro annuale della BECOSA e i laboratori annessi giochino un ruolo davvero importante nelle nostre esistenze, soprattutto per quanto riguarda la formazione e il senso di appartenenza a una più ampia famiglia. La BECOSA è fonte di sostegno sia per i cammini individuali che per quelli comunitari. Ogni volta che qualcuno partecipa agli incontri o ai laboratori della BECOSA, ne riceve nutrimento. C’è sempre il desiderio di avere più possibilità di questi momenti d’incontro, soprattutto per quanti avvertono il bisogno di essere nutriti, come i formatori e coloro che sono nella fase iniziale della formazione.

Il monastero di Elukwatini.
Il monastero di Elukwatini.

Sfide e gioie

La vita monastica è la vita più appagante. Possiede tutto ciò di cui ho bisogno per vivere una migliore esistenza cristiana. Come giovane monaca trovo tutto ciò stimolante, sia negativamente che positivamente. La maggior parte dei miei coetanei hanno responsabilità in differenti ambiti; hanno famiglia, proprietà e così via. Sembrano felici di avere tutti questi beni. Io sono qui, sembra che non abbia nulla di mio: ma è vero? Mi sento chiamata a una vita felice. Normalmente sembra buono e ci si aspetta che un giovane, una volta cresciuto, dia, in un modo o nell’altro, una mano alla propria famiglia. Nel mio caso non sono in grado di aiutare in modo tangibile le persone che ho lasciato a casa, ma posso intercedere per loro. Per raggiungere una tale convinzione ci vuole tempo. Di fatto, ritengo di poterli aiutare ancor più portandoli verso Gesù Cristo, che è il mio tutto. Non prego solo per quelli della mia famiglia, ma anche per gli amici e tutti coloro che ne hanno bisogno.

Un altro aspetto che si presenta come una sfida, soprattutto oggi, è la comunicazione attraverso i social media. Quasi ogni giovane sudafricano ha uno smartphone. Ci vuole autodisciplina per gestire i social media. Non lo nego, noi stessi ne facciamo uso da che esistono, ma non è facile avere una misura. Ciononostante è importante che ogni qual volta io prendo in mano il mio smartphone mi chieda se è proprio necessario. Fa bene alla mia vita religiosa? Mi aiuta o mi fa del male? Dove mettere un limite? Quando entrai nella vita religiosa, diciassette anni fa, se si voleva mandare una lettera, chi aveva la responsabilità della formazione doveva leggerla prima che fosse inviata, la stessa cosa quando la si riceveva. Doveva essere letta prima che giungesse nelle tue mani. Oggi la maggior parte di noi usa mail e whatsapp, e chi controlla? Nessuno, solo io e la mia coscienza.

Vi è un altro aspetto che riguarda chi aderisce alla vita religiosa o monastica; si possono avere piccole o grandi opportunità. Sto parlando di studi, scoperte, libertà e altro ancora. Osservando da lontano, si può avere l’impressione che quanti vivono nei monasteri abbiano delle limitate opportunità e d’altronde, guardando più profondamente, sembriamo essere coloro che approfittano maggiormente di queste opportunità; naturalmente, tutto ciò dipende dalla missione e dal campo in cui si opera.

Il silenzio è uno degli elementi più essenziali della vita monastica. Ciononostante, sebbene sia così importante, non è facile rimanere nel silenzio. Se uno non dice nemmeno una parola, non significa automaticamente che il silenzio lo abiti; può significare soltanto che non si stia parlando in quello specifico momento, ma che interiormente vi sia un gran brusio, molto più rumoroso. Un monastero può fornire un clima di silenzio che dovrebbe aiutare coloro che ci vivono e quanti lo visitano a incontrare Dio. Tuttavia, ognuno deve crearsi un proprio genere di silenzio, al fine di poter ascoltare Dio. Vi è un’infinità di cose che possono distrarci dal silenzio interiore: è proprio per questo che ognuno deve farne una priorità, perché è importante ascoltare la voce di Dio. È una sfida custodire il silenzio, ma è anche molto gratificante. Si sperimenta gioia nel conversare con Dio. Viviamo in un mondo rumoroso eppure ho trovato il silenzio in monastero, seppur talvolta si può essere effettivamente disturbati dai rumori esterni.

Vi sono altre pietre angolari nella vita monastica: la preghiera liturgica celebrata nei diversi momenti della giornata, l’eucaristia quotidiana, la lectio divina, la stessa vita comunitaria, i ritiri annuali, la direzione spirituale e così via; questi sono alcuni elementi che ci sostengono nella nostra vita.

Sebbene vivere in monastero possa essere davvero una sfida, sono giunta alla conclusione che se uno prende sul serio quanto gli viene offerto, la vita diviene possibile. Ho creduto e credo che Cristo sia in mezzo a noi; sebbene alcune circostanze possano renderci ciechi e farci credere che Egli sia lontano o tentino di convincerci che questa vita sia un fallimento, bisogna credere alla presenza divina e alla sua chiamata; tutto ciò ha sostenuto la mia vita fino a ora. La gioia vera e la consolazione giungono da Dio stesso.

 

Conclusione

Che una “giovane” sudafricana possa vivere nel ventunesimo secolo in monastero è un punto interrogativo; ciononostante, credo sia una speciale chiamata da parte di Dio, certamente non rivolta a tutti, ma a coloro che sono scelti per questo. Si deve abbracciare questa vita come il tesoro più prezioso, donatoci per amore. Sono profondamente consapevole che Dio chiama delle persone che ritiene possano trovarlo e servirlo al meglio; tuttavia, si può constatare come talvolta in un coro non tutti siano dotati per il canto, alcuni possono sostenere altri e questo significa che è possibile sia vivere armoniosamente, sia essere continuamente importunati. In quanto scuola, un monastero ha la possibilità di avere tutti i generi di studenti e allora la domanda è: che genere di studente sono io? Quale posso essere? Come devo comportarmi con il resto degli studenti che vivono con me in questa scuola? Questa è davvero un’occasione di riflessione per il presente.

Primi passi nella vita monastica

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Testimonianza

Suor Rosa Ciin, OSB

Comunità di Shanti Nilayam (India)

 

Primi passi nella vita monastica

 

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Contributi del monastero di Bafor allo sviluppo locale

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Economia e vita monastica

Dott.ssa Katrin Langewiesche

Istituto di Etnologia e Studi africani,

Università di Mainz (Germania)

 

Tra cooperazione e conflitto

Contributi del monastero di Bafor (Burkina Faso)

allo sviluppo locale

 

 

Riassunto della tesi di specializzazione (Master II) in sociologia di Anne Nonna Dah, conseguita presso l’Università cattolica di Bobo-Dioulasso, Burkina Faso, sostenuta sotto la direzione del professor Amandé Badini e del dottore Jacques Thiamobiga, dal titolo: «Integrazione delle cistercensi di Notre Dame de Bafor tra i villaggi circostanti».

 

La tesi di Anne Dah analizza le trasformazioni sociali ed economiche indotte dalla presenza del monastero delle sorelle Cistercensi Bernardine d’Esquermes a Bafor, in Burkina Faso. I risultati di dette ricerche sono senza dubbio interessanti sia per la sociologia dello sviluppo, disciplina alla quale Anne Dah appartiene, sia per la sociologia del monachesimo. Stabilitesi nel 2005 a Bafor, le Cistercensi Bernardine d’Esquermes conducono una vita contemplativa. Malgrado il loro essere ritirate dal mondo, le loro azioni producono inevitabilmente degli effetti sulla società nella quale sono inserite e inducono cambiamenti dell’ambiente sociale ed ecologico circostante che Anne Dah si propone di esaminare nel suo lavoro. La prima parte dello studio è dedicata a come il monastero viene percepito dal punto di vista sociale dagli abitanti della popolazione locale. Come i vicini del monastero percepiscono le monache? La seconda parte analizza le interazioni tra il monastero e l’ambiente circostante e il contributo del monastero allo sviluppo del paese.

L’autrice concepisce lo sviluppo come un processo di trasformazioni in linea con le dimensioni dell’ambiente sociale ed ecologico, una forma di cambiamento sociale indotto attraverso delle operazioni volontarie che hanno dato luogo, qualche volta, a dei risultati inattesi.

La cittadina di Bafor è situata nella parte sud-est del Burkina Faso, a quindici chilometri a sud di Dano, capoluogo della provincia di Ioba. Localizzata nella diocesi di Diébougou, accoglie il progetto della fondazione di un monastero sin dal 2000. Su invito di mons. Jean-Baptiste Somé, le Cistercensi Bernardine d’Esquermes si sono stabilite in questa diocesi. La benedizione del nuovo monastero «Notre Dame de Bafor» è avvenuta il 19 novembre 2005, dopo che le prime cinque monache, provenienti da Goma nella Repubblica Democratica del Congo, si sono stabilite nella nuova fondazione. Bafor è un villaggio dagara nel quale la maggioranza della popolazione è attaccata ai culti degli avi. Se questa popolazione ha accolto il monastero, questo non vuol dire allo stesso tempo che abbia aderito alla religione delle monache e al loro modo di vivere.

Fondazione del monastero di Bafor. © AIM.
Fondazione del monastero di Bafor. © AIM.

«Se vai a casa loro devi suonare la campana»:

rappresentazioni sociali intorno al monastero

Nell’ambiente dagara, il posto della donna è al focolare domestico e il destino della giovane è il matrimonio e la procreazione. La donna non ha diritti sulla proprietà. Questa società difficilmente concepisce una vita femminile al di fuori di queste convenzioni sociali. Di conseguenza, le contemplative appaiono, agli occhi della popolazione, come esseri radicalmente altri. Il loro modo di vita è tollerato perché sono straniere, ma rimane pertanto sospetto, poiché mostra alle giovani dagara che una vita al di fuori del matrimonio e dell’essere casalinga è possibile. Agli occhi della popolazione divenire religiose di vita attiva è una rarità stravagante che alla fine può essere tollerata, mentre le monache sono percepite come persone ai margini: senza marito, senza figli, senza padre né madre. Senza giudicare questo modo di vivere, gli abitanti di Bafor accettano di vedere le monache evolversi secondo la loro visione del mondo e si adeguano ad alcuni dei loro usi: «Se vai da loro devi suonare la campana».

Essi lasciano liberi i loro bambini di andare al monastero e di partecipare alle messe e alle preghiere. Qualche volta i genitori accompagnano i loro bambini piccoli per le grandi feste come Natale e Pasqua.

Le sorelle sono poco numerose. La loro comunità varia da un numero di cinque a sette membri. Le loro uscite sono limitate, questo è incomprensibile per la popolazione. Un venditore di un chiosco, stupito, dichiara: «Ho incontrato una di loro che una volta passando mi ha detto di essere arrivata dodici anni fa, ma che non era mai stata al centro del paese di Bafor. Al massimo si era limitata alla strada asfaltata». L’immagine che le monache rimandano alla società è quella di “donne di preghiera”, che vivono rinchiuse e tra di loro. Le regole circa la clausura, il silenzio e la regolarità della preghiera hanno contribuito a questa immagine. «Per me, sono delle donne di preghiera. Quando vado da loro, le vedo di rado. Non escono, sono totalmente dedite alla preghiera».

I vicini del monastero hanno capito due dei principi essenziali della vita monastica femminile: la preghiera e la clausura. In compenso, il lavoro necessario per mantenere la comunità e per venire in soccorso agli indigenti non è menzionato come uno dei tratti essenziali della vita delle sorelle di Bafor. La rappresentazione del monastero di Bafor evolve evidentemente di pari passo alle interazioni che le Cistercensi Bernardine hanno con gli uni o con gli altri nell’ambiente naturale circostante. In effetti, le monache non comunicano spesso con la popolazione, a volte a causa delle regole che impone la clausura, della non padronanza della lingua dagara, dell’isolamento del luogo e anche per il desiderio di limitare le interazioni e non essere invase dalle molte richieste da parte della popolazione.

 

Una coabitazione tra cooperazione e conflitto

Il vivere insieme tra monache e popolazione ospitante si caratterizza con una coabitazione che oscilla tra non conoscenza reciproca, cooperazione e conflitto, riguardo all’accesso alla terra e all’impiego delle risorse naturali. I diversi gruppi di interesse non hanno i medesi-mi punti di vista su queste questioni. Per alcuni, le sorelle intrattengono relazioni cortesi e di confidenza con la popolazione locale grazie alla loro delicatezza e gentilezza: «La loro maniera di trattare le persone, di saperle prendere, la loro amabilità e comprensione, credo che questo faccia molto» per raggiungere un’intesa, spiega il cappellano. Per altri, è soprattutto la loro capacità di trasformare il luogo che attira la loro simpatia. Le monache si occupano tra l’altro della piantagione di alberi, di giardinaggio e di allevamento. Esportano il loro yogurt nella regione sud-ovest, dove il loro savoir-faire è molto apprezzato. Ancor più la dimensione caritativa del monastero (la presa in carico delle spese per la scolarità) e le infrastrutture acquisite con il tempo (pozzi, elettricità) le pongono al primo posto tra le istituzioni nei cui pressi la popolazione desidera insediarsi. «Prima erano solamente due famiglie a fianco del monastero. Ora ci sono tre o quattro edifici in più perché lì c’è l’acqua e le donne vanno a prenderla». Una nuova dinamica di popolamento si sta realizzando intorno al monastero con nuove domande sociali. Dopo aver facilitato, per le famiglie vicine, l’accesso all’acqua, le stesse domandano ora, l’accesso all’elettricità. Così alcuni lavori edili, posti in essere dalle monache per i loro propri bisogni, sono stati messi a beneficio delle popolazioni circostanti e hanno facilitato l’arrivo di nuovi abitanti.

I buoni rapporti coi vicini possono trasformarsi in conflitto quando la terra e le sue risorse diventano oggetto di invidia. La fondazione di Bafor e la necessità di terra agricola hanno causato tensioni tra la Chiesa locale e il villaggio. Il monastero di Notre Dame di Bafor ha avuto bisogno di molto terreno per la sussistenza delle monache. Una parte del sito dell’attuale monastero era un campo delle Suore dell’Annunciazione di Bobo (SAB) che l’hanno abbandonato a vantaggio delle Cistercensi Bernardine. Si è proceduto all’acquisto di un terreno da aggiungere allo spazio iniziale per permettere al monastero di ottenere 30 ettari. In effetti, certi produttori agricoli vicini al luogo hanno ceduto i loro terreni per accogliere la domanda del monastero. Questo non senza difficoltà. Come ovunque, la crescente richiesta di terra ha aumentato la competitività e la concorrenza, sotto l’effetto congiunto delle intense migrazioni interregionali, dell’inserimento dei piccoli agricoltori nel mercato, dell’instabilità delle regole di distribuzione fondiaria e anche dell’indebolimento dei poteri tradizionali, ma anche della pressione di gruppi e centri di interessi ovvero, nel caso di Bafor, della Chiesa cattolica.

Quello che gli interlocutori esprimono con: «Non è stato facile» indica che il ruolo sociale del proprietario terriero quale gestore della terra del villaggio non è stato efficace. In effetti la situazione fondiaria intorno al monastero ha mobilitato i poteri tradizionali, come è solito in caso di conflitti fondiari, ma anche dei protagonisti ecclesiastici che sanno che la proprietà fondiaria è un mezzo per assicurare i loro investimenti e garantisce la stabilità delle loro imprese. Le monache sono coscienti di questo problema e sanno che alcuni agricoltori temono di perdere i loro terreni. Di conseguenza, questi agricoltori si sono radicalmente opposti alla cessione dei loro campi. Convincerli “non è stato facile”. Qui, come altrove, i conflitti intorno alla questione fondiaria sono legati alla posizione sociale e agli interessi dei diversi protagonisti: il proprietario terriero, l’agricoltore e la diocesi. Il problema ruota intorno alla terra e al potere: il più grande agricoltore del luogo cerca di conservare il suo terreno e il suo potere economico, dall’altra parte il potere locale vuole conservare la sua notorietà e la sua autorità sulla gestione dei fondi comuni, mentre la diocesi vuole imporre la sua visione riguardo la proprietà privata. Queste dispute si sono spinte sino ad arrivare a minacce di morte e le diverse persone coinvolte sono state convocate dalla polizia. Tuttavia, il ricorso all’amministrazione pubblica e alle sue istituzioni non ha avuto grande effetto sulla gestione dei conflitti. È l’usanza dagara, nota come “parentela burla” (lolouru), che ha giocato un ruolo importante per la risoluzione pacifica dei conflitti. È un sistema di capitale importanza per la mediazione nella società dagara, un’utile riconciliazione paragonabile a un patto di non aggressione che unisce e avvicina i capi clan, gruppi basati sulla linea di discendenza dei padri di famiglia, raggruppati secondo l’appartenenza reale con ascendenti comuni[1]. Il parente burla è il tãpelv-sob che significa letteralmente “l’uomo con la cenere”, dove la cenere è percepita come elemento di riconciliazione e di pacificazione. L’intervento di quest’ultimo permette di ristabilire la pace, l’armonia, l’intesa, la gioia. Questo sistema ha giocato un ruolo importante anche nella regolamentazione dei conflitti intorno al monastero di Bafor, grazie all’intervento del cappellano che è stato allo stesso tempo parente burla del clan avversario. L’intervento di questo mediatore, riconosciuto sia dalle monache che dall’amministrazione dagara, ha permesso una riconciliazione duratura. Dopo l’intervento della giustizia, dei mediatori ecclesiastici e del parente burla, un compromesso tra i diversi protagonisti è stato raggiunto.

Dopo un inizio contraddittorio, quale è oggi l’impatto del monastero sullo sviluppo del villaggio di Bafor?

Il chiostro e la cappella del monastero di Bafor.
Il chiostro e la cappella del monastero di Bafor.

Il contributo del monastero allo sviluppo di Bafor

Con la fondazione Dreyer, a Dano, che attira dei turisti grazie alla sua posizione, che sormonta la diga e la sua architettura, il sito del monastero, nella boscaglia a qualche chilometro dalla piccola città di Dano, è un luogo di pace e riposo, meta importante di visite nel sud-ovest. Il monastero di Bafor contribuisce senza alcun dubbio al patrimonio architettonico e turistico della regione. Sebbene la popolazione locale apprezzi il valore estetico del sito – «Esse hanno umanizzato lo spazio inabitato, è così bello passeggiare attorno al monastero» –, essa beneficia più direttamente di qualche impiego che il monastero propone ai giovani, agli operai e alle donne della zona sia giornalmente che permanentemente. Oltre a un salario regolare, gli impiegati e le loro famiglie hanno l’occasione di un apprendistato sui nuovi metodi di lavoro e della gestione dei redditi. Le monache spronano i loro operai ad associare l’allevamento all’agricoltura, a evitare fertilizzanti e pesticidi chimici, a diminuire i fuochi di sterpaglia e a costituire un’economia del risparmio. Le capacità acquisite dai collaboratori hanno evidentemente un’influenza sulle loro famiglie come conferma questo impiegato:

«Abbiamo comprato dalle monache e dai vicini delle pecore per cominciare anche noi ad allevare. Attualmente, io posso dire che ho circa sedici pecore. Dispongo anche di letame da mettere nei campi. Tutto questo è d’aiuto».

Il cambiamento di abitudini è anche legato all’esempio che le sorelle danno per proteggere l’ambiente. Anche se in principio esitanti e contrari, i loro vicini dagara, col passare degli anni, riprendono le iniziative delle sorelle. Poco a poco è stata imitata dalla popolazione soprattutto la pratica del para-fuoco per evitare i fuochi della boscaglia.

«Credo che alcuni vicini comincino a rimpiangere di aver bruciato il loro terreno. Esse hanno piantato molto mantenendo la flora naturale che c’è già».

Le Bernardine d’Esquermes hanno ricevuto il carisma dell’educazione scolastica che si traduce nella costruzione di scuole e di centri di accoglienza in tutti i luoghi in cui si sono stabilite. Il monastero di Bafor costituisce un’eccezione in seno all’ordine, ma che è in linea con la richiesta del vescovo di creare unicamente un luogo di preghiera e di contemplazione. A Bafor, anche se il monastero per il momento non ha costruito una scuola, le Cistercensi Bernardine contribuiscono attivamente all’educazione dei bambini. La loro presenza influenza i bambini che accorrono verso il monastero e ai quali esse impartiscono dei corsi di catechismo. Le sorelle stanno riflettendo attualmente su come tradurre il loro carisma dell’insegnamento a Bafor, cercando di adattarsi al contesto locale e ai suoi connotati nel quadro di un insegnamento rurale.

Insediatesi da poco in un ambiente piuttosto titubante dopo un’installazione conflittuale, i compiti che le Cistercensi Bernardine esercitano quotidianamente mostreranno la loro influenza sull’ambiente e la società nella lunga durata. La loro vita nascosta si è rivelata, di fatto, un germe di cambiamento sociale. La costruzione dei monasteri va ovunque alla pari con dei conflitti, delle rotture, delle resistenze e delle negoziazioni con le gerarchie. La ricerca monastica concerne questi conflitti e produce di frequente molte questioni e ambivalenze che non portano risposte e garanzie. La tesi di Anne Dah ha il merito di affrontare la tematica del contributo del monastero di Bafor allo sviluppo locale in termini positivi come anche sotto il profilo dei limiti allo scambio, al trasferimento e alla interazione.


[1] La parentela burla autorizza, a volte addirittura obbliga, dei membri di una stessa famiglia, o certe etnie o gli abitanti di una stessa regione, territori o province a prendersi in giro o insultarsi senza conseguenze. Tali affronti verbali sono considerati dagli antropologi come sistemi di pacificazione, di coesione o riconciliazione sociale, quasi una pratica sacra. È l’unica pratica che permette che nessuna parola o comportamento offenda, l’essenziale è non versare sangue. Risolve le crisi sociali, perché non ce la si prende con un genitore burla e quando una famiglia o un clan litiga, sono i loro parenti burla che devono servire da catalizzatori di conciliazione. Non è raro che questa burla trasmetta un messaggio molto forte che spinge la parte avversa a una conversione, a un cambiamento positivo.

Vita monastica e poesia

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Liturgia 

Suor Thérèse-Marie Dupagne, OSB

Priora del monastero di Hurtebise (Belgio)

 

Vita monastica e poesia

(liturgia, lectio, vita fraternale)

 

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Gheronda Aimilianos

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Monaci e monache, testimoni per il nostro tempo

Tratto da uno scritto dello Ieromonaco Serapione

Monastero di Simonos Petra (Monte Athos, Grecia)

 

Gheronda Emilianos

del monastero di Simonos Petra


 

«Mi indicherai il sentiero della vita, gioia piena alla tua presenza dolcezza senza fine alla tua destra» (Sal 15,11)


 

L’Archimandrita e Gheronda Emilianos, al secolo Alexandros Vafidis, igumeno del monastero di Simonos Petra dal 1973 al 2000, è nato a Nikea del Pireo nel 1934.

Nel 1906, la sua famiglia si stabilisce a Samandra in Cappadocia e, in seguito alla catastrofe avvenuta in Asia Minore con lo scambio delle popolazioni, il futuro Gheronda Emilianos arriva in Grecia. Pur essendo sposati, i genitori del piccolo Alexandros vivevano come monaci dedicandosi alle veglie notturne e alla preghiera. Quando si ritrovarono vedove, sia sua nonna che sua madre diventarono monache.

Alexandros, dopo aver portato a termine le scuole superiori, proseguì ad Atene l’università, prima alla facoltà di Diritto, per due anni, e in seguito alla facoltà di Teologia secondo quello che era il suo desiderio. Nell’ambiente universitario con alcuni compagni si impegnò fortemente per favorire la crescita nella fede e la vita cristiana. Pensava di diventare prete e persino missionario. Ma ritenne più adeguato prepararsi alla missione cominciando la sua formazione in un monastero.

Fu notato dal vescovo di Trikala e, nel 1960, il giovane Alexandros si confidò con lui. Divenne così monaco con il nome di Emilianos nel monastero di San Bessarione di Doussiko. Fu ben presto ordinato diacono dal vescovo che lo mandò in vari monasteri delle Meteore fino alla sua ordinazione sacerdotale. Dopo l’ordinazione visse per un po’ di tempo nel monastero di San Bessarione di Doussiko. Là si consacrò alla solitudine e alla ricerca della pace interiore fino a nutrire profondamente il desiderio di una rinascita del monachesimo. In seguito, fu scelto per essere igumeno nel santo Monastero della Trasfigurazione della Grande Meteora. In un primo tempo visse quasi da solo conducendovi una vita ascetica: vegliava e pregava integrando progressivamente gli elementi propri della tradizione monastica. Resosi conto di una tale serietà di vita, il vescovo gli affidò un servizio pastorale e così cominciò ad accogliere sempre più persone che si affidavano alla sua cura spirituale. Molti giovani cominciarono a venire per confessarsi e, ben presto, divenne il padre spirituale di un gran numero di persone.

Tra questi giovani, molti pensavano alla vita monastica e, con il tempo, costituirono il primo nucleo della comunità del monastero della Meteora, mentre altri si orientarono alla vita presbiterale o a fondare una famiglia. Tutti però, anche se in modi diversi, costituivano come una sola famiglia spirituale allargata che aveva il monastero come centro.

È a partire da questo momento che padre Emilianos cominciò a recarsi sulla Santa Montagna per attingervi la ricchezza della sua eredità spirituale. Là conobbe padre Paissios e papa Efrem di Katounakia con i quali strinse una grande amicizia spirituale.

Nel 1972 accompagnò la fondazione di una comunità femminile sempre alle Meteore.

Nel 1973 fu scelto dai fratelli più anziani come igumeno del monastero di Simonos Petra. I padri della Santa Montagna accolsero con grandi speranze l’installazione della comunità delle Meteore sul Monte Athos. In effetti altre comunità si aggiunsero progressivamente cosicché i monaci atoniti videro crescere considerevolmente il loro numero.

Pur continuando a condurre la sua vita monastica con vigilanza, celebrando la divina liturgia e dedicandosi agli altri doveri del suo stato, padre Emilianos si dedicò alla riorganizzazione della vita interna della nuova comunità. Con rispetto e amore seppe innestare sull’esperienza dei più anziani l’entusiasmo giovanile valorizzando così la dedizione e lo zelo dei monaci più giovani che contribuirono così all’ulteriore ampliamento della comunità. La sua buona capacità di amministrazione generale e la vigilanza paterna sui monaci gli permise di ristabilire l’autorità e di rimettere in valore la tradizione multisecolare di questo Santo Monastero di fama secolare.

Dopo aver organizzato la vita della sua comunità sulla Santa Montagna, padre Emilianos si prese cura della vita della comunità femminile di Ormylia che si era radunata il 5 luglio 1974 in una casa fino ad allora dipendente (metochion) da Vatopédi sotto il titolo dell’«Annunciazione della Madre di Dio» che fu acquisita dal monastero di Simonos Petra con l’approvazione del vescovo locale e l’aiuto della Santa Comunità. Da quel momento le monache vi si installarono come metochion del monastero di Simonos Petra. Tutto ciò non si poté realizzare certo senza fatiche e difficoltà.

Il Gheronda Emilianos accolse nel suo monastero un certo numero di stranieri che diventarono monaci sotto la sua guida. Si pensi in particolare ai padri Placide Deseille e Elie Ragot che arrivavano dalla Francia con quanti li seguivano. Tra il 1979 e il 1984 furono fondate tre case dipendenti in Francia: Sant’Antonio il Grande per i monaci, la Protezione della Madre di Dio (Solan) e la Trasfigurazione del Salvatore (Terrason) per le monache. In questi monasteri padre Emilianos si recò spesso dopo la loro fondazione.

Il Gheronda fu molto richiesto sia per delle conferenze che per l’accompagnamento spirituale, accogliendo ogni cosa come una benedizione di Dio.

A metà degli anni ’90, la salute di padre Emilianos cominciò a peggiorare in modo irrimediabile e per questo dovette progressivamente lasciare la sua carica di igumeno. Nel 2000 si ritirò nel monastero di Ormylia dove trascorse gli ultimi vent’anni della sua vita nello spogliamento e nella pazienza di fronte alla sofferenza.

I suoi insegnamenti spirituali sono stati raccolti in vari volumi a cura delle monache di Ormylia e un certo numero sono stati tradotti in francese:

– «Le sceau véritable» (1998).

– «Sous les ailes de la colombe» (2000).

– «Exultons pour le Seigneur» (2002).

– «Le Culte divin» (2004).

– «De la chute à l’éternité» (2007).

– «Discours Ascétiques d’Abba Isaïe» (2015).

– «La voie royale – Saint Nil de Calabre» (2017).

A partire dalle parole del suo successore, il Gheronda Eliseo, si può affermare che:

«L’igumenato di Gheronda nel Santo Monastero di Simonos Petra ha segnato una tappa importante nella storia recente del monastero. È stato un periodo benedetto nel corso del quale il monastero ha ritrovato una grande irradiazione che ha coinciso anche con l’aumento del numero dei monaci e lo stesso influsso spirituale della Santa Montagna nel suo insieme grazie alla potente intercessione della santissima Madre di Dio. Per questo, come lo stesso Gheronda lo formula nella Regola monastica (Typikon) di Ormylia (I, 9): “La comunità monastica del Coenobium, vivendo secondo il suo proprio ritmo, sostanzialmente vive nella Chiesa e per la Chiesa, come il cuore o le altre membra del corpo. La vita monastica non è da apprezzarsi per lo sviluppo di una particolare attività, ma principalmente per la ricerca amorosa di Dio. In tal modo le monache diventano immagini perfette di Dio, attirando così gli altri alla vita divina”».

Dopo lunghi anni vissuti nel silenzio su un letto di dolore, il Gheronda Emilianos ha raggiunto dolcemente le dimore celesti il 9 maggio 2019. Che la sua memoria resti in eterno!

Viaggio nella Cina continentale

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Notizie

Padre Jean-Pierre Longeat, OSB,

Presidente dell’AIM


Viaggio nella Cina continentale[1]

 

 

Come prolungamento della riunione internazionale del BEAO a Taipei (Taiwan), padre Mark Butlin e io abbiamo avuto la possibilità di visitare alcuni aspetti della Cina continentale e alcune realtà monastiche in questo paese. Non è possibile descrivere questo viaggio in dettaglio e specialmente i numerosi scambi avuti. Tuttavia, è opportuno rendere conto a grandi linee di questa impressionante immersione nell’Impero di Mezzo.

All’indomani del nostro arrivo a Pechino cominciamo con una splendida visita della Grande Muraglia Cinese, giusto per rimetterci in forma!

Nel pomeriggio ci rechiamo in una delle grandi chiese a nord di Pechino, conosciuta con il nome del Santo Salvatore, dove possiamo incontrare il parroco e parlare a lungo con lui. La chiesa ha appena beneficiato di un restauro completo. Il percorso che porta alla chiesa è bordato di angeli che suonano la tromba: è già Natale o quasi. La liturgia dei Primi Vespri aprirà il Tempo di Avvento. Tutti sono affaccendati.

Ricordiamo che nel settembre 2018 è stato firmato un accordo tra la Santa Sede (che ha riconosciuto sette vescovi della Chiesa patriottica) e la Cina, che non nominerà più vescovi senza l’accordo del Vaticano. Vi sarebbero attualmente tra i 10 e i 15 milioni di cattolici nella Repubblica popolare cinese. L’Associazione cattolica patriottica della Cina conta 97 diocesi ufficiali. Ma la Chiesa cattolica ne conta fino a 138, con numerose sedi vacanti.

Per la prima domenica di Avvento celebriamo la messa nell’attuale cattedrale di Pechino dedicata all’Immacolata Concezione della Vergine Maria, a sud della città.

Dopo la messa, con una partecipazione molto numerosa e una bella liturgia, ci rechiamo a visitare gli edifici rimasti dell’università Fu Jen. Questa grossa istituzione è stata fondata a Pechino nel 1933 da alcuni monaci di Saint-Vincent di Latrobe in Pennsylvania.

Successivamente ci rechiamo al seminario di Pechino il cui rettore ha compiuto la formazione teologica di base a Saint-Vincent di Latrobe. Incrociamo i cinquanta seminaristi: visitiamo l’ambiente spazioso e ben organizzato. La biblioteca appena costruita è molto ben disposta; la chiesa è ampia e funge anche da parrocchia dove alcuni seminaristi sono impegnati nel servizio pastorale.

Nella festa di san Francesco Saverio, il 3 dicembre, partiamo molto presto verso la Manciuria dove dobbiamo incontrare la comunità della Santa Croce a circa due ore dalla città di Changchun.

Siamo vicini a Songhur, a circa 60 chilometri da Jilin. Il priorato è frutto di una lunga storia. In effetti, i monaci di St. Ottilien (Germania) avevano fondato un monastero a Yenki, diventato in seguito vicariato apostolico. Ma tra il 1946 e il 1952 i monaci furono perseguitati e posti sotto il controllo delle autorità civili. Alcuni tornarono in Germania, altri fuggirono in Corea del Sud dove fondarono un monastero che avrebbe posto le radici di quello di Waegwan, esistente ancora oggi e fiorente. Nel 2001, dopo cinquant’anni di assenza dal territorio cinese, la Congregazione di St. Ottilien ritornò a fondare un monastero nella regione di Jilin, dapprima in una parrocchia, poi nella casa dove ci troviamo. Un sacerdote cinese, formatosi a St. Ottilien, dopo aver emesso la professione solenne, è stato il capo cantiere di questa iniziativa.

I monaci vivono la Regola di san Benedetto. Una casa di riposo per anziani è legata al monastero, come pure un centro in cui i sacerdoti delle diocesi vicine possono ritemprarsi. I monaci sono anche incaricati della parrocchia dove avevano il loro primo insediamento.

L’indomani partiamo verso la città di Jilin dove scopriamo in primo luogo la cattedrale che è stata appena restaurata. Ci rechiamo poi nel seminario della diocesi di Jilin dove siamo accolti dal rettore e dall’economo. Condividiamo la mensa con i seminaristi. Sono settanta, per una ventina di diocesi. Questa istituzione ha un’ottima reputazione. Il rettore ha compiuto parte dei suoi studi teologici a Roma. Ha una mente aperta e si dimostra accogliente nei confronti di realtà che gli sono estranee.

In seguito, imbocchiamo la strada del ritorno fermandoci nella chiesa che i monaci possiedono ancora sul luogo del loro primo insediamento e nella quale prestano servizio religioso. Durante la cena commentiamo abbondantemente la giornata.

Mercoledì 5 dicembre raggiungiamo l’aeroporto di Changchun per ritornare a Pechino dove visitiamo la Città imperiale: meraviglia!

Priorato di Xishan, fondato da dom Joliet e i monaci di Saint-André di Bruges.
Priorato di Xishan, fondato da dom Joliet e i monaci di Saint-André di Bruges.

Giovedì 6 dicembre voliamo verso Chengdu, capitale dello Sichuan. Dobbiamo recarci nella città di Xishan dove visiteremo l’antico monastero fondato da dom Jehan Joliet e dai monaci di Saint-André di Bruges.

Il monastero non è lontano dalla città: lo raggiungiamo attraverso una stradina che ci conduce ai piedi di un monte sulla cui cima si trova il cimitero cristiano del luogo. Gli edifici monastici hanno conservato il loro aspetto. Sono stati costruiti negli anni Trenta. Attualmente sono la residenza del vescovo di Nanchong. Ospitano anche una casa per persone anziane. Vi è stato costruito un santuario con una grandissima Via Crucis che porta sino alla tomba dei primi priori, di alcuni monaci, suore e di altri cristiani.

Ci tratteniamo a lungo con il vescovo e visitiamo dettagliatamente i luoghi: il capitolo, le celle, il refettorio… quindi percorriamo la Via Crucis fino alle tombe dei fondatori. Secondo il costume cinese, sono stati cremati e posti in nicchie funerarie ornate da targhe che illustrano la loro saggezza.

Il primo fondatore è dom Jehan Joliet. Nacque in Francia, a Digione, nel 1870. Dopo aver compiuto gli studi navali dai gesuiti, divenne ufficiale di marina e scoprì la Cina nell’esercizio delle sue funzioni. Rimase affascinato dalla ricchezza e dalla profondità della cultura di questo paese. Fu colpito dalla scarsa stima che all’epoca i missionari nutrivano per quella cultura e rifletté su una possibile evangelizzazione nel rispetto delle mentalità del luogo. Entrò nel 1894 all’Abbazia di Solesmes, a quel tempo rifugiata sull’Isola di Wight, nella speranza di potere, un giorno, fondare in Cina. Successivamente, fu in contatto con dom Théodore Nève, abate di Saint-André di Bruges, e infine partì per la terra cinese insieme a un monaco di Saint-André con la missione di fondare. Il monastero doveva essere completamente cinese con una dimensione di preghiera contemplativa e di studio. La fondazione si concretizzò nel 1929 nella provincia del Sichuan, in un luogo chiamato Xishan. Dom Joliet fu il primo priore. Tuttavia, nel giro di alcuni anni, una divergenza di vedute riguardo alla prospettiva dell’inculturazione, spinse dom Joliet a rinunciare alla sua carica e a ritirarsi a vita eremitica. Morì nel 1937. Lascia un pensiero originale, molto innovativo rispetto al suo tempo.

Dopo il pranzo facciamo ritorno verso Chengdu dove in serata dobbiamo anche incontrare il vescovo. È in carica da soli due anni. Ci parla del suo ministero.

L’indomani raggiungiamo Shangai. Abbiamo appuntamento con un gesuita francese presente a Shangai dopo aver trascorso parecchi anni a Taipei. Rimaniamo con lui per circa due ore. È un vero vulcano. Ci promettiamo di rivederci in Francia. Avremo ancora molte cose da dirci!

Ci rechiamo poi alla cattedrale di Shangai che è stata fondata dai gesuiti. Giungiamo al termine della messa celebrata in cinese. La chiesa è stracolma; è stata interamente restaurata in questi ultimi anni. Dopo la messa, il parroco della cattedrale e un sacerdote amico ci fanno visitare i luoghi, tra cui la casa diocesana dove vivono diversi sacerdoti.

Camminiamo lungo il fiume nel quartiere mitico di Bund. La sera stessa raggiungiamo in aereo Hong Kong. Il giorno dopo, il Padre Abate di Lantao, dom Paul Kao, viene a prenderci per raggiungere il suo monastero, sull’isola di Lantao.

La fondazione del monastero risale al 1946. È stata realizzata da due gruppi di monaci fuggiti dalla Cina continentale a seguito delle persecuzioni del regime comunista. Una comunità di una quindicina di monaci, tra i quali uno, con formazione da architetto, costruì il monastero in un luogo pressoché deserto dove gli sforzi per il trasporto delle pietre e la sistemazione dei sentieri sono stati una vera e propria conquista. Gli edifici sono costituiti da un rettangolo formato da due ali dove si trovano i luoghi regolari, le celle e, alle estremità, due corridoi di raccordo. Più in là si erge la chiesa come la prua di una barca al di sopra del mare con il campanile di pietra a guisa di albero maestro. Un altro prolungamento recentemente ristrutturato corrisponde all’infermeria. In basso, la spaziosa foresteria accoglie numerose persone in ritiro. È costituita da circa sedici camere con sale per riunioni e un refettorio.

Incontriamo la comunità per l’ufficio e il pranzo. Il pomeriggio passa velocemente. In serata, Mark presenterà il lavoro dell’AIM alla comunità. L’indomani si recherà a Macao per incontrare la nuova fondazione delle trappiste di Vitorchiano. Quanto a me, riparto alla volta di Parigi dove, dopo sedici ore di viaggio, ritorno sul suolo francese!


[1] Continuazione del resoconto del viaggio in occasione dell’incontro dell’Associazione Benedettina dell’Est Asiatico e dell’Oceania (BEAO), pubblicato nel Bollettino 116, pp. 61-66.


Edifici ora vuoti dell’antica università di Fu Jen, fondata dai monaci di Saint-Vincent di Latrobe (USA).
Edifici ora vuoti dell’antica università di Fu Jen, fondata dai monaci di Saint-Vincent di Latrobe (USA).

Viaggio in Ciad

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Notizie

Suor Christine Conrath, OSB,

Segretaria dell’AIM


Viaggio in Ciad

giugno-luglio 2019

 

 

Nel quadro dei viaggi dell’Équipe Internazionale dell’AIM sono stata invitata a trascorrere alcuni giorni in Ciad, nella comunità di Sant’Agata di Lolo, primo e unico monastero della nostra famiglia benedettina in Ciad. Da tempo questa comunità, che si trova molto isolata nel paese, desiderava una visita fraterna. Sin dalla fondazione l’AIM ha molto sostenuto i progetti presentati da questo monastero. Era giunto il momento di manifestare ancor più concretamente, la nostra presenza fraterna accanto a queste sorelle tanto coraggiose.

Ho viaggiato con Royal Air Maroc ed è stato un bagno di arabo fin da Parigi, con uno scalo a Casablanca, splendido aeroporto internazionale. Bisogna contare, oltre al volo Parigi-N’Djamena, dieci ore di tragitto in autobus per percorrere i 475 chilometri da N’Djamena a Moundou, quindi 11 chilometri da Moundou a Lolo. Non si fa il calcolo in chilometri, ma in ore di viaggio, viste le condizioni della strada (buone nei dintorni della capitale del Ciad, ottime intorno a Moundou – seconda città del paese – ma deplorevoli in alcuni luoghi lungo il percorso). L’interesse di un viaggio in autobus è molteplice: immersione nella popolazione locale e visita del paese! I sedili sono comodi e consentono di riposarsi. Si possono visualizzare su uno schermo comune spettacoli di varietà in francese o in arabo (seconda lingua ufficiale del Ciad) e anche film cinesi sottotitolati.

L’aereo è atterrato a N’Djamena in orario ma una delle mie valigie era stata smarrita, quindi tempi lunghi dovuti alla disputa per i bagagli oltre alle formalità di ingresso nel paese. Durante questi passaggi, pensavo a suor Denise che ha dovuto aspettarmi per più di due ore davanti all’aeroporto.

Il monastero Sant’Agata è stato fondato nel 2004 dalle sorelle congolesi di Lubumbashi (congregazione Regina degli apostoli). Tutto in esso è giovane e dovevo scoprire tutto. Nella biblioteca delle sorelle mi ha guidata un libro meraviglioso: «Origini della Chiesa cattolica in Ciad, diocesi di Moundou. Diario di un missionario» di Marie-André Pont, cappuccino. La Chiesa del Ciad non ha ancora cent’anni. Le otto diocesi del paese sono servite da 131 sacerdoti diocesani, 111 sacerdoti religiosi, 375 religiose… Sant’Agata è l’orgoglio della diocesi di Moundou, mi ha confidato un sacerdote diocesano incontrato in città.

Prima della mia partenza, padre J.P. Longeat e io abbiamo potuto incontrare padre Michel Guimbaud, cappuccino francese arrivato in Ciad sin dal 1957, tre anni prima dell’Indipendenza. Ha condiviso con noi il suo zelo apostolico e la sua stima per il popolo del Ciad. I cappuccini celebrano l’Eucaristia a Sant’Agata tre volte a settimana e rendono vari servizi alla comunità. Si rendono particolarmente disponibili come messaggeri per trasmettere le mail e diverse informazioni alle monache.

Durante il viaggio in autobus ho notato gli autoarticolati carichi di containers che salgono da Douala e Yaoundé in Camerun. Il paese è isolato, senza accesso al mare, con una superficie pari a due volte e mezzo la Francia: la metà nord è desertica. Oltre alle condizioni climatiche difficili, la situazione politica è conflittuale: le zone controllate da Boko Haram non sono lontane. Studiando la storia recente del Ciad, specialmente sotto la dittatura di Hissène Habré (1982-1990), si comprende la sofferenza del popolo ciadiano. Il 30 maggio 2016 questo dittatore è stato condannato all’ergastolo per crimini contro l’umanità, torture, crimini di guerra. La revisione del processo, venticinque anni dopo la caduta di Habré e la sua fuga in Senegal, è interamente dovuta alla perseveranza e alla tenacia delle vittime.

Siccome la mia valigia era stata smarrita, ho sperimentato l’accoglienza evangelica secondo Luca 10: «… Non portate borsa, né sacca, né sandali. […] In qualunque casa entriate, prima dite “Pace a questa casa!”. […] Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno». Le sorelle mi hanno sistemata in una bella cella, con tutto il necessario per trascorrere la notte e tutta la settimana. Le zanzare sono state clementi, la zanzariera è bastata a tenerle lontane, il diffusore specifico antizanzare era naturalmente nella valigia.

Il monastero è ben costruito e spazioso. La bella chiesa è stata dedicata il 29 giugno 2018. La cucina, gradevole e ben arieggiata, funge anche da refettorio. Le monache hanno appena terminato di costruire dieci camere supplementari per ampliare la capacità di accoglienza in foresteria. Infatti, molte persone vengono a “ricaricarsi” in monastero. Gli ospiti apprezzano l’ambiente e la comunità. Durante il mio soggiorno, un gruppo di religiosi era in ritiro, animato da un sacerdote giunto dal Centrafrica.

La chiesa del monastero. © AIM.
La chiesa del monastero. © AIM.

Sono rimasta toccata dalla serietà della vita religiosa di queste sorelle, in condizioni di benessere molto relative. L’uso del tempo è molto serrato: Ufficio delle letture alle quattro e trenta, Compieta alle otto, una breve siesta dopo il pranzo. Suor Denise, la superiora, suor Gisèle, foresteraria, suor Myriam, direttrice della scuola, sono congolesi di Lubumbashi. La prima professa del Ciad, suor Priscille, si trova attualmente a Lubumbashi per la sua formazione. I membri della comunità saranno presto al completo con il rientro di sr. Eulalie e in particolare di suor Philomène. La comunità è accogliente, una suora di Babété (nel vicino Camerun) si trova qui per alcune settimane di riposo. Ho avuto la gioia di rivedere suor Myriam che avevo incontrato tre anni fa a un corso per formatori; ha seguito il percorso «Ananie» (per i formatori di lingua francese) e ne ha tratto grande vantaggio. Andrà a studiare per tre anni Sacra Scrittura a Yaoundé: è un grande sacrificio per la comunità, che ha accettato generosamente.

Accompagnando suor Denise nei campi coltivati dal monastero, scopro che sono necessarie tre sarchiature prima della raccolta delle arachidi. Purtroppo, la piantagione viene estirpata in alcuni punti, sia perché non è piovuto quando si è piantato, sia perché le mandrie di buoi sono venute a brucare in maniera inopportuna, attraversando la delicata coltura. Una volta, queste mandrie di 180 capi scendevano da Nord dopo il raccolto: pulivano e concimavano i campi, per la gioia dei contadini. Ora scendono prima e le conseguenze per le coltivazioni sono disastrose.

Spremitura delle arachidi per ricavare l'olio. © AIM.
Spremitura delle arachidi per ricavare l'olio. © AIM.

Tra gli operai che lavorano sul campo delle monache, notiamo i “coristi” della parrocchia vicina che vogliono acquistarsi degli strumenti musicali e un amplificatore; la paga viene messa da parte perché possano un giorno comprare ciò che sognano. Ho visto anche le donne del villaggio che vengono a lavorare con i figli più piccoli sulla schiena o che camminano coraggiosamente di fianco alla mamma. Le monache sono una provvidenza per gli abitanti del villaggio: vendono a credito, ad esempio, i semi per le coltivazioni.

Quest’anno, oltre al sesamo, arachidi, miglio, igname, suor Denise, che ha compiuto studi di agronomia, si lancerà nella coltivazione del cotone. Il terreno è sabbioso, facile da sarchiare, ma una pioggia forte sradica facilmente gli alberi. Lo Stato ha lanciato una politica di rimboschimento; è proibito abbattere alberi, ma c’è necessità del carbone di legna per la cucina... Il monastero possiede una macchina per spremere le arachidi; durante il mio soggiorno tre operai l’hanno fatta funzionare per tutta una giornata e il giorno dopo abbiamo portato i bidoni di olio a un cliente di Moundou.

La vita in monastero è ritmata dall’arrivo dei vicini. Il mattino partenza per i campi, verso le 11 si serve il tè agli operai, verso le 15 ci si reca a prendere il pasto (farina mescolata con miglio e mais, salsa di gombo, un po’ di pesce). Alle 17 fine del lavoro. Ciascuno rientra a casa propria prima che scenda la sera, alle 18.

Le monache hanno una piccola scuola. All’inizio assicuravano tutto l’insegnamento, ora hanno assunto degli insegnanti che chiedono un legittimo salario. Ma gli abitanti del villaggio faticano a versare la quota di iscrizione. I bambini sono precocemente ritirati dalla scuola: anche la scuola pubblica è a pagamento. I soldi mancano. La pompa dell’acqua, messa a disposizione del villaggio, aspetta la terza riparazione; le monache chiedono a chi ne usufruisce di fare una colletta… Bisogna terminare i corsi della scuola primaria il 30 maggio, perché i genitori portano i figli a lavorare nei campi già all’inizio di giugno (stagione delle piogge). L’hangar della scuola del monastero è stato finanziato in parte dagli alunni della scuola di Lubumbashi: bella operazione di condivisione solidale.

Le monache affrontano le dure contingenze con un coraggio che suscita ammirazione. A tutt’oggi avrebbero bisogno di recintare i campi per proteggere le coltivazioni e di poter contare su una distribuzione di elettricità più affidabile – soprattutto per alimentare il frigorifero – quindi di un gruppo elettrogeno più potente. Per quanto riguarda l’accesso a internet, la cosa appare complessa. Il monastero si trova in un bacino; è necessario prendere l’auto e salire su una vicina collina, a un chilometro e mezzo, per captare i segnali: come superare questa distanza?

Durante tutto il mio soggiorno in questa comunità ho sperimentato che tutto è grazia. Ringrazio la comunità di Sant’Agata per l’accoglienza e per avermi aperto gli occhi su una nuova realtà. Notiamo, terminando, che sia il vescovo locale sia le monache e i frati cappuccini che le servono, desidererebbero ardentemente la fondazione di un monastero maschile nelle vicinanze. È disponibile un terreno. L’appello a tutti coloro che potranno rispondervi è lanciato!

Sessione dei superiori del Madagascar e dell'Oceano Indiano

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Suor Agnès Brugère, OCSO,

Priora di Ampibanjinana


Sessione dei superiori del Madagascar e dell’Oceano Indiano

 Monasterio di Ampibanjinana, maggio 2019

 

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Programma ABECCA per formatori monastici

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P. Alex Echeandía, OSB,

Presidente dell’ABECCA

 

Relazione sul programma di formazione monastica ABECCA

Guatemala, 14-23 luglio 2019

 


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Percorso di formazione «Ananie»

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Fratel Moïse Ilboudo,

Benedettino di Koubri (Burkina Faso)


Testimonianza sul percorso

di formazione «Ananie»

in lingua francese

 

 

Sono molto contento di aver partecipato alla sessione di Ananie in questi tre mesi, con un programma ben definito. E con i parteci­panti non abbiamo potuto esaurirlo. Questi cammini percorsi di monastero in monastero rappresentano per me come i re magi (cf. Mt 2,1-12) alla vista della stella di Colui che li guidava e come la Vergine Maria che attraversava le montagne per andare a trovare sua cugina Elisabetta.

Questa sessione mi ha immerso di nuovo nella mia scelta: la vita monastica nelle sue profondità di grazia e i suoi benefici. Ho fatto l’esperienza che formare dei novizi alla vita monastica comin­cia innanzitutto con il lasciarsi trasformare; e che donare esige che si sappia anche ricevere, come afferma il fascicolo: «Piccola riflessione su Ananie». Anania, discepolo di Cristo, iniziatore di Paolo alla vita in Cristo, deve essere un modello, un’icona in qualsiasi incarico mi sia affidato. Dato che la nostra religione cristiana è trasmissione, fede viva che si realizza nella Parola celebrata e pregata, le prime tre setti­mane del nostro soggiorno alla Pierre-qui-Vire ci hanno immerso nel mistero di Cristo: passione - morte - resurrezione! Questi insegna­menti ci hanno accompagnato fino alla fine della sessione.

Nei suoi interventi, il pastore Pierre-Yves Brandt ha acceso una fiammella in me che ho cercato di proteggere fino alla fine della sessione. Doveva essere ben protetta perché potesse crescere, perché è come un granellino seminato nel terreno. Deve poter spuntare e dare i suoi frutti nel tempo, nella mia vita monastica di ogni giorno, perché anche gli altri si nutrano di questi frutti. Come non c’è rosa senza spine, così la vita monastica è piena di bellezza formata da un insieme di individui, ciascuno con il suo proprio carattere, che essa deve gestire rispetto agli altri: è la vita fraterna! Pierre-Yves mi ha insegnato, grazie ai suoi esercizi pratici, a trovare una soluzione in questa o in quell’al­tra situazione. Per gestirle, come implicarsi? Leggere e rileggere la mia vita, rientrare in me stesso, essere puntuale per meglio trasmettere ciò che ho ricevuto. Riferirmi sempre alla Sacre Scritture, alla Regola di san Benedetto, alle Costituzioni e al Consuetudinario - che sono degli strumenti pratici. Devo essere consapevole della situazione concreta nella quale mi trovo. Devo essere responsabile di me stesso in ogni situazione, mettendomi al posto dell’altro per agire meglio e non per difendermi. Ci sono sempre mille soluzioni, mille modi di gestire una situazione e di saper ascoltare lo Spirito Santo.

Il monaco ascolta lo Spirito Santo, la Parola di Dio, nella lectio divina. La lectio divina è il luogo di tirocinio della lettura delle Sacre Scritture, per ascoltare meglio una parola che mi permetterà di leggere e rileggere la mia vita e di decifrarla. La tradizione è un tesoro dal quale prendiamo il nuovo e l’antico, una dinamica di vita che ci prepara all’incontro con Dio. Padre Armand Veilleux ci diceva che trasmettere la tradizione significa trasmettere l’esperienza della vita monastica. La formazione è un processo.

Siamo stati creati a immagine di Cristo, deformati dal peccato e riformati dalla grazia di Cristo. Il compito del formatore è l’integrazione e la formazione: aiutare la persona che viene in monastero a trasformarsi, a integrarsi nella comunità che l’accoglie.

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