Transizione
Estratto del Bollettino dell’AIM • 2024 - N° 127
Riepilogo
Editoriale
Dom Bernard Lorent Tayart, osb, nuovo Presidente dell'AIM
Prospettive
• Intervento al Congresso degli abati
Dom Jean-Pierre Longeat, osb, Presidente uscente dell’AIM
• Intervento al Congresso degli abati
Dom Gregory Polan, osb, Abate primate uscente
• Dom Jeremias Schröder, Abate primate
Tratto da un articolo di Vatican news
Riflessioni
Autorità et libertà
Dom Mauro-Giuseppe Lepori, OCist, Abate generale
Aprirsi al mondo
La situazione attuale dell'India sulla scena internazionale
Dom Jean-Pierre Longeat, osb
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Testimonianza
La fede cristiana svelata con un approccio mistico orientale e occidentale, a cura di J. Monchanin, H. Le Saux e B. Griffiths
Dom Dorathick Rajan, osb
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Liturgia
“Abbiamo bisogno di una formazione liturgica seria e vitale”.
Fratel Patrick Prétot, osb
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Grandi figure della vita monastica
• Abate Notker Wolf
Dom Cyrill Schäfer, osb
• Addio a dom Notker Wolf
Dom Jeremias Schröder, osb
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• Suor Lazare de Rodorel de Seilhac
Suor M.-Madeleine Caseau e Suor Fabienne Hyon, osb
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Notizie
• Viaggio in India (4-11 febbraio 2024)
Dom J.-P. Longeat, osb
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• Viaggio in Togo (17-24 febbraio 2024)
Dom J.-P. Longeat, osb
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• Resoconto dell'incontro dei superiori monastici dell'Africa occidentale francofona
Suorr Thérèse-Benoît Kaboré, osb
• Cronaca del 21o Capitolo generale della Congregazione Sublacense Cassinese osb
Dom Josep-Enric Parellada, osb
Editoriale
Lo scorso giugno, il padre Abate primate Gregory Polan, dopo aver consultato le autorità competenti, mi ha nominato Presidente dell’AIM al posto del padre abate Jean-Pierre che ha concluso i suoi undici anni di servizio prezioso per tutta la famiglia benedettina. L’annuncio ufficiale della mia nomina è stato fatto durante il Congresso degli abati che si è tenuto a Roma dal 10 al 20 settembre 2024. Assumerò in pieno le mie funzioni a partire dal 1° gennaio 2025 data in cui non sarò più abate a Maredsous.
Per arrivare a questa nomina hanno sicuramente avuto il loro peso queste motivazioni: sono abate di Maredsous dall’aprile del 2002 e sono stato, al contempo, responsabile del priorato di Gihindamuyaga in Ruanda, fino al momento della sua autonomia nel 2018; faccio parte della Congregazione dell’Annunciazione con il suo carattere internazionale e la sua presenza in vari continenti; sono co-Presidente con mons. Sayaogo, arcivescovo di Koupéla in Burkina, della Fondazione internazionale Religions et Sociétés il cui intento è di promuovere in Africa il patto educativo di papa Francesco e l’accoglienza di preti e consacrati africani in Europa; infine la mia percezione della Chiesa è profondamente universale, tanto da meravigliarmi sempre e ancora del modo in cui Cristo parla e si esprime attraverso dei volti, delle mani e dei cuori così ricchi e così diversi.
In occasione del Congresso degli abati, alla fine delle nostre discussioni, sono stati evidenziati due temi: i monasteri che si trovano in luoghi di conflitto e l’anniversario della fondazione dell’abbazia di Montecassino nel 529.
Alcune abbazie e priorati si trovano infatti in zone segnate da conflitti: Terra Santa, Ucraina, Repubblica Democratica del Congo, non pochi paesi del Sahel, Venezuela e altre zone del mondo. Le nostre comunità condividono l’angoscia degli abitanti senza omettere di organizzare l’accoglienza e la cura dei rifugiati. Come possono i nostri fratelli e sorelle coinvolti in queste situazioni di conflitto farsi espressione di quella pace così cara a san Benedetto? Altri monasteri sono situati in zone in cui il conflitto è con la natura: l’abbazia di Valyermo in California è stata recentemente minacciata dagli incendi fino a tal punto da rendere necessaria l’evacuazione di tutta la comunità. La questione ambientale resterà a lungo un tema cruciale.
Tra cinque anni, l’abbazia di Montecassino celebrerà il 1500° anniversario di fondazione, nel 2029. Bisognerà dunque prepararsi in quanto questo anniversario è simbolico almeno a tre livelli. L’abbazia fondata da san Benedetto ha conosciuto, a più riprese, le devastazioni della guerra fino alla sua distruzione nel 1943. Per questo Montecassino ha un legame con le abbazie che si trovano in zone di conflitto. Fondata nel 529, l’abbazia eredita la missione culturale della Scuola Neoplatonica di Atene soppressa proprio in quell’anno. Per questo è un simbolo forte della trasmissione dei valori dall’antichità all’era cristiana. La nostra epoca vive la medesima tensione e siamo invitati a riflettere sulla nostra volontà di bloccarci nella posizione di un’istituzione che sta morendo oppure ‘rinverdire’ i nostri valori da trasmettere per proporre all’umanità il Cristo che è sempre nuovo. Infine, la comunità attuale di Montecassino sperimenta la fragilità vissuta da tante piccole comunità con il rischio di non poter continuare il proprio percorso. L’AIM offrirà delle proposte perché tutte le comunità possano vivere questo evento dell’arrivo di san Benedetto a Montecassino dove ha scritto la sua Regola.
Cominciamo anche una riflessione sul ruolo dell’AIM in merito alla solidarietà che essa incarna ed esprime tenendo conto della fragilità di molte comunità del Nord e della vitalità di molte comunità del Sud. L’Anno santo 2025, consacrato alla speranza e alla fiducia, rappresenta lo stimolo migliore che si possa immaginare per essere aiutati in questo cammino.
Dom Bernard Lorent Tayart, osb (Maredsous)
Nuovo Presidente dell’AIM
Articoli
Intervento al Congresso degli abati (J.-P. Longeat)
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Prospettive
Dom Jean-Pierre Longeat, osb
Presidente uscente dell’AIM
Intervento al Congresso degli abati
letto da dom Bernard Lorent Tayart
Dopo undici anni di servizio presso l’AIM come Presidente, sono felice di trasmettere questa bella responsabilità a un abate competente e intraprendente che continuerà lo sforzo di apertura e di condivisione che fa intrinsecamente parte dell’impegno di questo organismo.
Sono stato veramente contento di partecipare a questo lavoro che mette in relazione le comunità benedettine, cistercensi e trappiste, maschili e femminili, del mondo intero. Si tratta di una rete impressionante di circa 1.800 comunità. Non mancate di rendervi conto dei dettagli di tutto questo visitando il sito dell’AIM rinnovato di recente (https: www.aimintl.org/).
In un mondo così instabile come il nostro, sono assolutamente indispensabili delle strutture che permettano di agire in rete. In questo senso, l’AIM ha incoraggiato l’insorgere e la vitalità delle associazioni monastiche regionali in tutti i continenti. Ciò ha permesso ai superiori, ai formatori e ai giovani monaci e monache di avere a disposizione dei luoghi preziosi di concertazione, di condivisione e di formazione. Indubbiamente gli Ordini e le Congregazioni da sempre si occupano di questo, ma molto spesso, per mancanza di rinnovamento, per problemi strutturali o per abitudine, ciò rischia di non essere sufficiente. È questo il motivo per cui l’AIM, pur non avendo nessun ruolo gerarchico, può favorire con libertà altri modi di funzionamento che sono assai apprezzati dalle giovani comunità.
Nel corso degli ultimi sessant’anni, le fondazioni sono state numerose (circa 600). Negli ultimi dieci anni, il ritmo delle fondazioni è passato da dieci all’anno nel mondo, a circa tre fondazioni in un anno. Per questo motivo, la maggior parte degli aiuti richiesti all’AIM riguardano la formazione, anche se ci sono ancora delle richieste per costruzioni da fare o da rinnovare come pure per attività di lavoro remunerativo. Chiaramente tutte le fondazioni sono al momento da consolidare, perché possano durare con situazioni stabili.
L’AIM aiuta anche i monasteri nei loro progetti di sviluppo a vantaggio delle comunità e delle popolazioni locali. Per questo abbiamo creato una Fondazione affiliata alla Caritas – la Fondazione Benedictus – che ha come fine quello di accompagnare tutti questi progetti come pure di ricevere delle donazioni e dei legati per i quali è possibile beneficiare di vantaggi fiscali.
Dal punto di vista monastico alcune regioni del mondo sono particolarmente vivaci, come in Asia o in Africa, mentre altre comunità di questi continenti cominciano a sentire delle difficoltà a livello di nuovi ingressi. Molti paesi devono fare i conti con la secolarizzazione – specialmente in America Latina unitamente alla ‘concorrenza’ delle comunità evangeliche che sottraggono fedeli al cattolicesimo. Tutto ciò crea dei contesti assolutamente nuovi davanti ai quali i monasteri devono reagire in qualche modo.
Va registrato in molti casi un progressivo allargamento del legame con i laici. Non è certo una nuova realtà per la vita monastica, tenuto conto del fenomeno dei conversi, degli oblati, dei donati e dei famigli… Questo legame è stato vissuto in forme diverse; oggi, questo legame si pone in modo ancora nuovo a partire dell’ecclesiologia del Vaticano II. Sarebbe un grave errore non volerne tenere conto.
Negli anni del mio mandato come Presidente, sono stati preparati una serie di documenti da parte dell’Equipe internazionale per aiutare le comunità: lo Specchio monastico, il Sogno monastico, e più recentemente le risposte al questionario circa lo stato della vita monastica oggi. Questo lavoro fa parte della missione che l’AIM ha ricevuto: essere un osservatorio della vita monastica. Per questo l’Equipe internazionale è stata arricchita di membri più giovani, il Segretariato può contare su una sorella indiana e, ben presto, su una abatimonaca del Burkina (per tutto questo grazie a sr. Gisela, sr. Mary-Placid e sr. Christine che hanno animato il Segretariato durante il mio mandato); un buon numero dei membri del Consiglio e del Comitato esecutivo è stato rinnovato. Sono contento di lasciare al mio successore e ai suoi collaboratori e collaboratrici una realtà ben viva e pronta a cogliere le sfide sempre nuove da affrontare.
Le mie ultime parole sono da una parte un immenso grazie per il vostro contributo umano, spirituale ed economico a questa bella impresa, cui aggiungo un appello a fare sempre di più e meglio per quanto riguarda la solidarietà. La nostra grande realtà monastica è in grado di fare grandi cose se resta unita. Grazie di rimanere solidali gli uni con gli altri e di rispondere sempre ai bisogni delle comunità più povere che sono spesso anche le più giovani e le più dinamiche.
Sia benedetto Dio e sia glorificato in ogni cosa.

Intervento al Congresso degli abati (G. Polan)
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Prospettive
Dom Gregory Polan, osb
Abate primate uscente
Intervento al Congresso degli abati
10 settembre 2024
Sono trascorsi otto anni da quando ci siamo riuniti come Corpo degli Abati Benedettini. Da allora sono emerse molte questioni importanti per il mondo, per la Chiesa e per l’Ordine benedettino. Ci siamo confrontati e continuiamo a confrontarci con un mondo diviso a molti livelli dalla guerra, dalla violenza, dalla morte e da forme di estremismo. Così pure, la nostra Chiesa, di cui credo siamo una parte vitale, ha attraversato periodi di sofferenza e di guarigione, di umiliazione e di onore, di morte e di vita nuova. E la Chiesa ci ha indicato nuove direzioni per il futuro, nel senso di una rinnovata dedizione a Cristo e alla verità del Vangelo. E ciò sarà arricchito dalla nostra capacità di relazionarci gli uni con gli altri in modo sinodale. Proprio come la Chiesa, il nostro Ordine benedettino ha incontrato la difficoltà di affrontare la realtà di comunità più piccole, con meno vocazioni in molte parti del mondo, cercando al tempo stesso una saggezza più profonda per delineare nuove direzioni per la formazione nelle nostre comunità, a tutti i livelli, noi compresi, abati e monaci anziani. Ma le sfide di cui parliamo non sono forse un invito a rinnovare la nostra vita benedettina nella sua pienezza? Le nostre difficoltà non sono forse vie da seguire per cercare con risolutezza di affrontare i problemi ed elaborare un progetto per il rinnovamento continuo e permanente del nostro Ordine benedettino, della nostra missione in Cristo, e un invito a rendere lo spirito benedettino vivo, positivo e sano? La nostra dedizione al semplice ma profondo motto “Ora et Labora” ci mostra molti modi in cui l’Ordine benedettino può andare avanti ed essere un leader creativo e pieno di speranza nella Chiesa. Molti, infatti, sono i modi in cui possiamo raggiungere la Chiesa e il mondo attraverso gli elementi che hanno contraddistinto i benedettini nel corso dei secoli: liturgia, preghiera, silenzio, ascolto, contemplazione, dialogo, ecumenismo, equilibrio, umiltà, obbedienza e ospitalità.

Il mio intento di questa mattina non è quello di presentarvi una sintesi del mondo benedettino. Questo sarà il lavoro dei membri del Sinodo degli Abati presidenti che hanno preparato sia delle relazioni sia dei brevi interventi che ascolteremo nei prossimi giorni. Vorrei piuttosto parlarvi come un fratello abate, che ha assunto il compito di rimanere abate vivendo e lavorando in un luogo unico e meraviglioso, qui, a Sant’Anselmo a Roma. Quello che posso dire, e lo svilupperò meglio domani quando parlerò del ruolo dell’Abate primate, è che è stato totalmente diverso dalla mia precedente esperienza di servizio come Abate dell’Immaculate Conception Abbey, più spesso conosciuta come Conception Abbey, nel cuore degli Stati Uniti. Vi ringrazio sinceramente per avermi chiamato a questa attuale responsabilità a Sant’Anselmo per rappresentare l’Ordine benedettino in così tanti luoghi diversi nel mondo. Allo stesso tempo, posso dire che questo impegno mi ha messo alla prova, sia per quanto riguarda i talenti che Dio mi ha dato, sia per quanto riguarda lo sviluppo di capacità latenti necessarie per il benessere di coloro che vivono a Sant’Anselmo e per le varie situazioni nelle comunità monastiche di tutto il mondo. Mi ha obbligato a spingermi fino in fondo alle mie capacità, mi ha rivelato le mie debolezze e mi ha sfidato a crescere in molti modi. Ha dato una nuova profondità alla mia crescita spirituale e ha ampliato i miei orizzonti. Ho potuto vedere meglio come il nostro Ordine benedettino, sia maschile sia femminile, offra percorsi meravigliosi affinché il nostro servizio agli altri li attiri a Cristo attraverso lo spirito di san Benedetto.
Durante questi anni come Abate primate e vivendo a Sant’Anselmo, ho sviluppato un’amicizia spirituale con i primi fondatori monastici, i Padri e le Madri del deserto. Questi uomini e donne si recarono nei deserti della Palestina e dell’Egitto nel IV secolo, dopo l’editto di Costantino. Andavano alla ricerca della conoscenza dell’anima umana, e soprattutto della propria anima. La solitudine offriva loro lo spazio per una sottile ruminazione della Parola che permetteva loro di rispondere con semplicità e profondità, con eloquenza e autorità alle sfide del loro tempo. Essi hanno lasciato un’eredità che ci parla ancora oggi. Anche se raramente citavano lunghi passi della Scrittura, erano plasmati dallo Spirito divino che dimorava nella Parola divina della Scrittura. Le Scritture erano nelle loro ossa e nel loro sangue, nelle loro menti e nei loro cuori. Sebbene Costantino avesse dato al cristianesimo la libertà di espressione, questi monaci del deserto cercavano una libertà che aprisse loro gli occhi, per vedere in modo più penetrante, le orecchie, per ascoltare in modo più profondo, e il cuore, perché accogliesse in modo più aperto la maniera in cui lo Spirito Santo li avrebbe spinti verso temi di meditazione sempre più profonda. La loro fuga nel deserto voleva condurli in quel luogo conosciuto dai loro antenati nella fede, in cui Dio parlava al loro cuore direttamente e con una forza trasformatrice che provocava una vera conversione del cuore. La profezia di Osea era la loro ispirazione: «Perciò, ecco, la attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore» (Os 2,16). Man mano che il loro numero aumentava, nuovi e più giovani ricercatori di Dio arrivavano con le loro domande alla ricerca del cammino che conduce alla volontà di Dio. Le loro domande e storie ci rivelano la profondità della saggezza che l’esperienza umana e la sofferenza insegnavano loro.
Ci sono diverse eccellenti collezioni di testi che raccolgono i detti dei nostri antenati del deserto. Una in particolare mi è stata utile per mettere in luce i temi chiave che ricorrono ripetutamente nei loro scritti. Si tratta di The Word in the desert di Burton-Christie[1]. Leggere la tradizione del deserto è quasi come leggere il libro dei Proverbi. I detti, brevi e concisi, ci costringono a fermarci e a pensare a ciò che l’autore sta cercando di condividere con noi. Ma non credo che una lettura superficiale di questi testi sia sufficiente. È facile stancarsi e rinunciare al compito di una lettura lenta e attenta di questi detti, paragonabile al compito spirituale della lectio divina. Vorrei considerare quattro punti chiave: 1) l’importanza della conoscenza di sé; 2) l’importanza della pazienza; 3) la conoscenza approfondita dei salmi e 4) la paternità spirituale e l’amore fraterno. Sono parole di una tradizione monastica antica, che si esprime con uno stile molto diverso dal nostro, ma che hanno qualcosa da dire oggi, anche a coloro che compongono le nostre comunità monastiche.
L’importanza della conoscenza di sé
Abba Poemen dice che il testo del Sal 55(54),23 è essenziale sia per il monaco sia per il padre spirituale: «Affida al Signore il tuo peso ed egli ti sosterrà, mai permetterà che il giusto vacilli». Abba Poemen prende questo versetto del salmo e lo modifica in: «Gettarsi dinanzi a Dio; gettare se stessi e le proprie preoccupazioni davanti a Dio». Per Poemen, soltanto la totale dipendenza da Dio ci permetterà di vederci come siamo realmente. Se non abbiamo più nulla su cui fare affidamento, niente che ci dia un senso di sicurezza, arriviamo a un punto in cui vediamo noi stessi, spogli di ciò che serviva a darci una idea sbagliata di chi siamo in questo mondo. Questa è la conoscenza di sé che deriva dall’essere completamente vulnerabili davanti a Dio. La tradizione del deserto tratta l’importanza della conoscenza di sé sottolineando che essa continua a ripresentarsi nelle nostre vite. Anche quando pensiamo di essere arrivati a un punto in cui conosciamo chi siamo, ciò che c’è di unico in noi (in positivo e in negativo), quali sono le debolezze che ci contraddistinguono, ci rendiamo conto di come questa pratica di «gettare noi stessi e le nostre preoccupazioni sul Signore» sia un processo che dura tutta la vita. Ogni giorno ci sono occasioni in cui la nostra unicità davanti a Dio fa ostacolo a una vita condotta con la libertà interiore propria del monaco. Eppure, la fiducia totale in Dio ci dà la forza di vedere le cose con una libertà interiore che ci permette di giudicare correttamente. Non è sempre facile. Tuttavia, è molto liberatorio quando incontriamo un problema che richiede un’analisi approfondita e la libertà interiore ci mostra la strada da seguire. Quando c’è una vera conoscenza di sé, si vede anche più chiaramente in che modo giudicare ciò che è giusto o sbagliato, utile oppure no. Quando siamo soli davanti a Dio, senza l’aiuto di nessuna persona o pensiero, comprendiamo chi siamo e ci troviamo liberi di guardare la vita e tutte le sue complessità con uno sguardo certo, fiducioso e retto. Non avviene da un giorno all’altro. Il raggiungimento della libertà interiore avviene dopo anni trascorsi a vedere la abativita in questa prospettiva della totale dipendenza da Dio, vivendo allo stesso tempo con lo Spirito Santo come guida.
In pratica, si crea una situazione che ha una certa importanza perché coinvolge la propria vita, e la vita di un altro in necessità, un’anima umana. Tuttavia, quando si ha questa conoscenza di sé e questa libertà interiore, si vede chiaramente in quale direzione decidere e si passa all’atto. Non è necessariamente facile, ma si è saldi dentro di sé, a motivo della libertà interiore ricevuta dalla grazia di Dio e dell’apertura alla voce dello Spirito Santo. Il vecchio adagio “Sii vero con te stesso” esprime questa conoscenza di sé e questa libertà interiore.
L’importanza della pazienza
Oggi, dato che la vita scorre molto velocemente e noi ci aspettiamo risultati immediati, spesso ci troviamo più o meno frustrati. Ricordo che, da bambino, mia madre mi diceva: «Ricordati che la pazienza è una virtù». Ora ho capito quanto sia essenziale per tutti, nel mondo di oggi, crescere in questa virtù. Troppo spesso ci affidiamo esclusivamente ai nostri soli sforzi umani per realizzare le cose. Eppure, per noi, abati e padri spirituali delle comunità, il lavoro di modellare dei cuori umani è un lavoro che richiede preghiera, riflessione e pazienza, perché è Dio che plasma e modella il cuore dell’uomo in un modo molto più meraviglioso di qualunque cosa noi potremmo riuscire a fare da soli. E spesso l’infinita saggezza di Dio possiede qualcosa di molto più profondo e significativo rispetto a quanto noi possiamo sforzarci di costruire. Ma dobbiamo aspettare, e nell’attesa sapere pazientare perché Dio realizzi con la sua grazia qualcosa di molto più grande di quanto avremmo mai potuto immaginare. Ascoltiamo qualcosa a riguardo dalla tradizione del deserto.
Un giorno il santo padre Antonio, mentre sedeva nel deserto, fu preso da sconforto e da fitta tenebra di pensieri. E diceva a Dio: «O Signore! Io voglio salvarmi, ma i pensieri me lo impediscono. Che posso fare nella mia afflizione?». Ora, sporgendosi un po’, Antonio vede un altro come lui che sta seduto e lavora, poi interrompe il lavoro, si alza in piedi e prega, poi di nuovo si mette seduto a intrecciare corde, e poi ancora si alza e prega. Era un angelo del Signore, mandato per correggere Antonio e dargli forza. E udì l’angelo che diceva: «Fa’ così e sarai salvo». A udire quelle parole, fu preso da grande gioia e coraggio: così fece e si salvò.
La disponibilità a essere pazienti ha un effetto sia sul destinatario sia su noi stessi. Per colui che riceve la nostra pazienza c’è la benedizione di sapere che è stato rispettato, non avendo mostrato la fretta di risolvere la questione. Dando tempo ai pensieri, ai sentimenti e alle reazioni di calmarsi, dimostriamo all’altra persona che la questione non è un “gioco di potere” per vedere chi vince. Al contrario, la pazienza rivela la nostra disponibilità a concedere tempo al problema, per determinare la giusta direzione da seguire. La nostra pazienza può servire come insegnamento a un membro della comunità per qualsiasi futura situazione della sua vita. La pazienza può rendere possibile un legame di comunione tra due persone che, prima in disaccordo su una questione, giungono infine a una visione comune della soluzione.
Quindi nella nostra disponibilità a essere pazienti ci sono molte benedizioni. Innanzitutto, riconosciamo nel profondo del cuore che si tratta di una questione in cui la stessa grazia di Dio compie il suo miracolo di conversione. E questo ci rende uno strumento dell’opera di Dio. Questo dovrebbe trasmetterci un senso di grande valore: essere strumento di Dio. In secondo luogo, possiamo rimettere ogni volta la cura dei nostri fratelli o sorelle della comunità nelle mani di Dio, e aspettare pazientemente che qualcosa li spinga a seguire il cammino giusto che Dio ha preparato per loro. Terzo, a volte scopriamo che, malgrado le nostre buone intenzioni, il progetto che abbiamo pensato per qualcuno non è il piano di Dio per quel fratello o quella sorella. Oppure che il progetto auspicato è ancora in fase di elaborazione nel mistero della grazia, nel “tempo divino” e non nel “tempo umano”. In quarto luogo, la pazienza, se praticata più e più volte, calma la nostra anima e ci dà quella pace che fa la differenza nel modo in cui ci avviciniamo alle persone in generale e anche nel modo in cui esse vengono a trovarci. Un abate che sia più pacifico, calmo e riflessivo è sempre qualcuno a cui è più facile avvicinarsi e al quale siamo pronti ad aprire il cuore. In quinto luogo – e forse è la cosa più importante – praticando la pazienza, imitiamo Dio, la cui infinita pazienza con ognuno di noi è una delle più grandi benedizioni della vita. Quando ripensiamo a quei momenti in cui Dio aspettava che fossimo pazienti, aperti, disposti ad ascoltare la sua voce, vediamo quanto siamo stati benedetti. E siamo grati.
Una profonda conoscenza dei salmi
I salmi sono i nostri compagni quotidiani. Li incontriamo tre, quattro o cinque volte al giorno, a seconda della ripartizione dei salmi che seguiamo. Alcune comunità recitano tutti i 150 salmi in una settimana; la maggior parte delle comunità li recita in due settimane e alcune comunità più piccole in tre o quattro settimane, a seconda del numero dei monaci. Ricordiamo che queste preghiere sono state tradotte dalla loro versione originale ebraica in greco, latino, siriaco e aramaico. La maggior parte dei salmi si trovano tra i frammenti dei Manoscritti del Mar Morto. Questa raccolta di preghiere è stata recitata e utilizzata come fonte di preghiera per oltre 2.500 anni, sia nel culto sia nella preghiera privata. Gli studiosi che studiano la tradizione del deserto osservano che è il Nuovo Testamento quello a essere citato e meditato più spesso. Tuttavia, quando i Padri e le Madri del deserto citano l’Antico Testamento è a partire dai salmi. È interessante notare che quando vengono citati i salmi, spesso si tratta di un unico versetto che viene ripetuto numerose volte o anche riformulato come frutto della preghiera, mentre i monaci intrecciano cesti o corde.
Noi non pensiamo spesso di fare la nostra lectio divina o la meditazione a partire dai salmi, eppure è proprio questo che è al centro della recita dei salmi nella Liturgia delle Ore e nella tradizione del deserto. L’Istruzione generale per la Liturgia delle Ore distingue chiaramente tra la “recita dei salmi” e la nostra “preghiera a partire dai salmi”. Nelle prime edizioni della Liturgia delle Ore, successive al Concilio Vaticano II, erano inserite brevi collette per accompagnare i salmi. A volte esse venivano recitate, a volte pregate in silenzio e altre volte ignorate. Ma il punto è che la tradizione di pregare a partire dai testi dei salmi risale alla prima tradizione della nostra preghiera comunitaria. La domanda che ci poniamo è la seguente: «In che modo i testi di questi salmi suscitano la preghiera del nostro cuore? In che modo le parole del salmo accendono in noi un fuoco che invoca Dio nella preghiera del cuore?».
Lo dico perché a volte procediamo nella recita dei salmi senza alcuna pausa che possa incoraggiare la preghiera o la riflessione. Come ogni altro libro della Bibbia, anche i salmi sono parola ispirata da Dio. Dio ci parla attraverso queste parole e chiede a noi una risposta. In questi ultimi anni, lo studio dei salmi ha dimostrato che il primissimo salmo del Salterio è un “salmo della Torah”, un salmo di istruzione. Questo salmo suggerisce forse che l’intero libro dei salmi non è solo una raccolta di preghiere, ma è anche una guida a una vita giusta e virtuosa, in contrasto con la violenza e le guerre che oggi pervadono il nostro mondo, e che gli stessi salmi che parlano di violenza, di odio, di nemici, ci invitano a pregare per queste necessità e intenzioni per il nostro mondo, per i nostri fratelli e sorelle in umanità che si trovano in situazioni disperate. Posso dirvi che, fin dai giorni del mio noviziato, il Salterio è stato un compagno costante di preghiera e di riflessione. Raccoglie una moltitudine di tipi diversi di preghiere che orientano i nostri cuori verso la lotta contro i nemici e la violenza della guerra, ma anche verso la lode profonda e il ringraziamento riconoscente. Non incoraggerò mai abbastanza una comprensione profonda della ricchezza che troviamo nel Salterio per la nostra vita quotidiana, per la nostra preghiera quotidiana e la nostra riflessione quotidiana sui movimenti del nostro mondo d’oggi. Conoscete e amate il Salterio, miei buoni fratelli e sorelle! Incoraggiate a farlo anche i fratelli e le sorelle della vostra comunità e anche coloro che vengono per un tempo di preghiera, ritiro, silenzio!
Paternità spirituale e amore fraterno
Leggendo la Regola di san Benedetto, il ruolo dell’abate in quanto padre spirituale appare come l’immagine più caratteristica di colui che guida la comunità. «Mediante il suo insegnamento e le sue direttive, l’abate faccia penetrare nel cuore dei discepoli il buon fermento della giustizia divina» (RB 2,5); «Uguale per tutti sia dunque la carità dell’abate e unico il criterio nelle sue disposizioni, tenendo conto di quanto ciascuno merita» (RB 2,22); «Sempre l’abate si ricordi di quel che egli è e di come lo si chiama: padre» (RB 2,30). Ci sono tanti altri riferimenti alla paternità spirituale dell’abate e voi tutti li conoscete bene. Tuttavia, la funzione della paternità spirituale comporta alcuni pericoli. Se viene esercitata con troppa forza, i monaci si sentono come bambini, persone prive di responsabilità, iniziativa e intelligenza. Se è troppo enfatizzato, può creare un clima di immaturità che ha effetti negativi sulla crescita e sulla vitalità della comunità. Tuttavia, quando c’è una forte consapevolezza di avere un padre spirituale a capo della comunità, ci si può aspettare di trovarvi buona volontà, desiderio di benessere per tutti e fiducia nell’avvenire. Ogni monaco ha bisogno di sapere che c’è qualcuno la cui vita e il cui sguardo sono focalizzati sulla vita della comunità.
Uno dei modi in cui la paternità spirituale crea un sano equilibrio è il senso di amore fraterno che proviene dall’abate. Ancora una volta, ascoltiamo la tradizione del deserto per avere una certa prospettiva.
Una volta in cui padre Giovanni assieme ad altri fratelli saliva da Scete, la loro guida smarrì la strada, poiché era notte. I fratelli dicono al padre Giovanni: «Padre, che cosa facciamo? Poiché il fratello ha perso la strada. Non moriremo errando?». Dice l’anziano: «Se glielo diciamo, ne proverà dolore e vergogna. Ma ecco, io mi fingerò malato e dirò: “Non posso camminare, mi fermo qui fino all’alba”». Allora anche gli altri dissero: «Non andiamo nemmeno noi, ma ci fermiamo qui con te». Aspettarono fino all’alba, e in tal modo il fratello non fu mortificato.
L’esempio dell’abate ha qui parlato forte e chiaro ai suoi figli, ed essi hanno il suo esempio. Hanno visto l’amore del loro padre spirituale e hanno voluto seguirlo.
L’amore per i fratelli è molto importante. Ogni monaco deve sapere due cose: innanzitutto, che è amato e che ci si prende cura di lui, e inoltre che ha un padre spirituale nella persona dell’abate della comunità. La differenza che questo fa nella vita della comunità è così tangibile e chiara che si può riconoscere che questa comunità vive con l’amore fraterno che scaturisce dalla relazione con il padre spirituale. La parola “amore” non è sempre un termine comodo per tutti. Alcuni usano altri termini per descrivere l’amore, quali sostegno, incoraggiamento, cura, simpatia, gentilezza, comprensione e compassione. Può essere utile, ma non dobbiamo perdere il vero significato della parola amore, perché le Scritture ci ricordano che «Dio è amore; chi rimane nell’amore rimane in Dio» (1Gv 4,16b). E san Paolo ce lo dice nella lettera ai Romani: «L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (5,5). Sappiamo anche dalla Scrittura che l’amore che Gesù esigeva dai suoi discepoli non era sempre facile da vivere. A volte, per amare veramente un fratello o una sorella, si deve correggere la persona, apportare un cambiamento nella sua vita il che richiederà un adattamento non facile, però, se fatto con amore, darà il suo frutto. Quando un monaco sa che il suo abate lo ama e si prende cura di lui, che è disposto a sacrificarsi per lui, se anche dovesse fare un cambiamento per il bene di qualcun altro, se c’è amore fraterno, ci sarà anche una comunione di spirito che rivela che lì è presente l’amore di Dio.
Qualcosa di molto pratico e che per me è stato importante è la preghiera per i fratelli. Non intendo qui parlare di “vedere un bisogno e ricordarlo nelle proprie intenzioni”, il che è importante. Ma ancor più importante, prima come abate dell’Abbazia di Conception, e ora come abate di Sant’Anselmo, ho pregato per ogni monaco, nome per nome, ogni giorno. E posso dire che, per la mia comunità d’origine, per i monaci dell’Abbazia di Conception, continuo ancora a farlo.
Mi piace pensare che sia per questo che sono così felice di tornare a casa dopo otto anni di permanenza a Roma. Sì, ho davvero amato Roma; ho incontrato amici meravigliosi, ho avuto tante esperienze arricchenti. Ho apprezzato molto la visita alle comunità benedettine maschili e femminili, e tuttavia conosco il luogo e le persone in cui ho amato profondamente e in cui sono amato e so dov’è la mia casa, e non vedo l’ora di tornarci per intraprendere il prossimo capitolo della mia vita monastica.
In molti modi, queste quattro idee – crescere nella conoscenza di sé, esercitare la pazienza, trovarsi a casa nei salmi e portare l’amore nel proprio servizio di abate o badessa – sono semplici ma caratteristiche, non solo di san Benedetto, ma anche di Gesù così come è presentato nei Vangeli. Ci sono affidate anime umane – uomini e donne con ideali elevati e anche personalità e capacità fragili. Quando il nostro rapporto con ciascun membro della nostra comunità cresce fino a diventare un’esperienza di comunione, la comunità monastica mostra una vitalità che può provenire solo dalla grazia di Dio operante in essa. Quando siamo disposti a percorrere un cammino difficile insieme a un altro, e anche quando non siamo sicuri del passo successivo, stiamo portando avanti l’opera della Regola e del Vangelo. Sebbene ciò sembri tanto semplice, è anche autenticamente profondo nella costruzione del regno di Dio in seno alle nostre comunità monastiche.
Prima di concludere, vorrei ringraziare pubblicamente alcune persone per l’aiuto e l’incoraggiamento che mi hanno dato negli ultimi otto anni. Il Priore di Sant’Anselmo, Padre Mauritius Wilde, di Münsterschwarzach, è qui con me da otto anni. Lo ringrazio per aver messo generosamente a disposizione le sue capacità e i suoi talenti nell’organizzazione della vita del Collegio. Quando sono lontano da Sant’Anselmo, ho la certezza che lui si prende cura dei monaci che qui vivono e studiano: sono in buone mani. Ringrazio anche il Vicepriore Padre Fernando Rivas, dell’Abbazia di Lujan in Argentina, per il suo generoso servizio sia nel Collegio sia nell’Ateneo. Ha moltiplicato i programmi di formazione monastica in varie lingue per i benedettini e i cistercensi di tutto il mondo. Ringrazio il Rettore dell’Ateneo, Padre Bernhard Eckerstorfer dell’Abbazia di Kremsmünster in Austria, per il suo genio creativo nel far avanzare la nostra università e formare una solida comunità tra docenti e studenti. Ringrazio Padre Geraldo Lima y Gonzalez per il suo lavoro alla Tesoreria e come procuratore di diverse nostre Congregazioni. Padre Geraldo è una delle persone più generose che mette a servizio i suoi talenti ovunque sia necessario. Padre Rafael Arcanjo, che pure lavora nell’ufficio amministrativo e coordina i volontari che aiutano a portare avanti la vita di qui. Il sig. Fabio Corcione come responsabile amministrativo. Padre Benoît Alloggia, dell’Arciabbazia di Saint Vincent, e fratel Victor Ugbeide, di Ewu in Nigeria, che si prendono cura degli ospiti.
Padre Josep Maria Sanroma di Montserrat, che è anche il segretario del Priore, si occupa con competenza della cura della casa in qualità di Curator Domus. Padre Laurentius Eschelböch, che è il nostro canonista e professore, è stato molto generoso con il suo tempo e le sue energie nell’aiutarci a risolvere le questioni canoniche e i problemi che arrivano sulla scrivania del Primate. Il mio segretario personale in Curia, il sig. Walter Del Gaiso, è stato a dir poco eccezionale in tutti i suoi sforzi. Lavora con cura, generosità e rapidità per portare a termine l’intera giornata di lavoro, giorno dopo giorno. E poiché, come si sa, “una buona cucina mantiene sana la casa”, ringrazio di cuore Antonio Giovinazzo e il team della cucina, di cui in questi giorni siamo felici beneficiari. È importante porgere una parola di ringraziamento anche a suor Lynn McKenzie, Moderatrice del CIB; le comunicazioni e il lavoro insieme sono stati un segno dell’importanza della collaborazione tra monaci e monache.
L’ultima parola spetta agli abati che hanno permesso a questi monaci di essere qui a Sant’Anselmo, come professori e ufficiali. Uomini di talento di cui si è certamente sentita la mancanza nelle loro comunità di origine per i doni e i talenti che generosamente condividono con questa comunità di Sant’Anselmo. A voi, cari fratelli abati, rivolgo una sincera parola di ringraziamento e profonda gratitudine. Sant’Anselmo vive e respira nuova vita grazie alla vostra generosità e al vostro sacrificio.
«Nulla assolutamente anteponiamo al Cristo;
Egli ci conduca tutti insieme alla vita eterna. Amen» (RB 72, 11).
[1] D. BURTON-CHRISTIE, The Word in the desert. Scripture and the Quest for Holiness in Early Christian Monasticism, Oxford University Press, 1993; tr. it. D. BURTON-CHRISTIE, La Parola nel deserto. Scrittura e ricerca della santità alle origini del monachesimo cristiano, Qiqajon, Magnano1998.
Dom Jeremias Schröder, nouvel Abbé Primat
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Perspectives
D’après un article de Vatican News
du 14 septembre 2024
Dom Jeremias Schröder,
nouvel Abbé Primat
de la Confédération bénédictine
Dom Jeremias Schröder, âgé de 59 ans, a été élu le 14 septembre dernier Abbé Primat de la Confédération bénédictine.

Le nouvel Abbé Primat était jusqu’à présent Abbé président de la congrégation de Sankt-Ottilien, en Bavière. L’élection a eu lieu lors du Congrès des abbés à Saint-Anselme qui a eu lieu du 9 au 19 septembre 2024.
Moine bénédictin depuis 40 ans, le père abbé Jeremias a étudié la philosophie, la théologie, l’histoire et les archives à l’Athénée pontifical Saint-Anselme et à St. Benet’s Hall à Oxford. Il est bien connu de l’AIM puisqu’il a longtemps siégé au Conseil de cet organisme qu’il a fait bénéficier de ses nombreux talents.
Dès son élection, le père Jeremias est revenu sur la situation des pays victimes de conflits :
« Le monde est en feu en ce moment. Nous avons ici, au Congrès des supérieurs monastiques à Saint-Anselme, le témoignage d’abbés qui viennent de pays en guerre, d’Ukraine, de Terre Sainte ».
« Au cours de ce Congrès, nous essaierons de réfléchir ensemble à la manière de réaliser la devise de notre ordre, qui est “Pax”, la paix. Nous réfléchirons à la manière dont nous pouvons réellement contribuer à la paix par le travail de nos communautés, par le témoignage, par la construction de ponts entre les cultures ».
« L’Orient et l’Occident se séparent. Les bénédictins ont pour mission depuis toujours d’être en relation avec les Églises orientales. Il y a là quelque chose à quoi nous pouvons vraiment contribuer, et nous y travaillerons ».
L’apport des bénédictins
Le 19 avril 2018, le pape François, rencontrant les moines de la Confédération bénédictine, a exprimé sa « considération et sa gratitude pour la contribution significative que les bénédictins ont apportée à la vie de l’Église, dans toutes les parties du monde, pendant près de mille cinq cents ans » en vivant la devise : Ora et labora et lege (prière, travail, étude).
« En cette époque, où les gens sont tellement occupés qu’ils n’ont plus le temps d’écouter la voix de Dieu, vos monastères et vos couvents deviennent comme des oasis où des hommes et des femmes de tous âges, origines, cultures et religions peuvent découvrir la beauté du silence et se redécouvrir eux-mêmes, en harmonie avec la création, en permettant à Dieu de rétablir un ordre juste dans leur vie. Le charisme bénédictin d’accueil est très précieux pour la nouvelle évangélisation, car il permet d’accueillir le Christ dans chaque personne qui arrive, en aidant ceux qui cherchent Dieu à recevoir les dons spirituels qu’il a en réserve pour chacun de nous. »
Autorità et libertà
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Riflessioni
Dom Mauro-Giuseppe Lepori, OCist
Abate generale
Autorità et libertà
Corso per is uperiori dell’Ordine cistercense
Roma, 21-26 settembre 2023
Proporre un cammino di conversione
Per capire cosa significhi esercitare una responsabilità nella Chiesa e nell’ambito monastico senza abusare del potere e della coscienza è più utile approfondire il tema in positivo che in negativo, anche per capire che, se ci sono delle derive abusive nei nostri superiori o nelle nostre comunità, la soluzione è più una conversione che una correzione. Spesso cerchiamo di correggere gli atteggiamenti sbagliati senza individuare che conversione sia necessaria perché una persona, una comunità o una situazione possano correggersi. Invece, Cristo è venuto a correggere l’umanità proponendo un cammino di conversione, e un cammino di conversione alla sequela di Lui.
È importante capire questo. Penso facciamo tutti esperienza, a qualsiasi livello dell’impegno pastorale che ci è affidato, che ogni tentativo di correzione senza proporre un cammino di conversione rimane sterile, non da frutto, non cambia nulla, peggiora la situazione. La tentazione di voler correggere senza proporre un cammino di conversione contraddice un principio per me fondamentale espresso da Papa Francesco nella Evangelii Gaudium: che è più importante iniziare processi di vita che conquistare spazi di potere. Rileggiamo questo paragrafo dell’Evangelii gaudium:
«Uno dei peccati che a volte si riscontrano nell’attività socio-politica consiste nel privilegiare gli spazi di potere al posto dei tempi dei processi. Dare priorità allo spazio porta a diventar matti per risolvere tutto nel momento presente, per tentare di prendere possesso di tutti gli spazi di potere e di autoaffermazione. Significa cristallizzare i processi e pretendere di fermarli. Dare priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi. Il tempo ordina gli spazi, li illumina e li trasforma in anelli di una catena in costante crescita, senza retromarce. Si tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici. Senza ansietà, però con convinzioni chiare e tenaci» (EG 223).
Quando analizzo le situazioni di abuso di potere e di coscienza che arrivano a un punto estremo di crisi, come un ascesso che scoppia, non faccio fatica a riconoscere a livello di una determinata persona o comunità quello che il Papa descrive qui per la società intera. Tante volte succede che anche nei monasteri, «per tentare di prendere possesso di tutti gli spazi di potere e di autoaffermazione», certe persone si oppongano a favorire processi che generano pazientemente la vita della comunità, anche nell’ambito economico, ma che sono necessariamente processi di comunione, di servizio reciproco, di umile affermazione dell’altro più che di se stessi.

Un pericolo già previsto nel Vangelo
Ma ben prima che il Papa, di questo ci parla tutta la tradizione monastica, ci parla la Regola di san Benedetto, e anzitutto e attraverso tutto, di questo ci parla Gesù stesso nel Vangelo. È interessante notare che Gesù, parlando di autorità e potere nella comunità cristiana, mette immediatamente in guardia contro il pericolo di abusarne:
«Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo. Chi è dunque il servo fidato e prudente, che il padrone ha messo a capo dei suoi domestici per dare loro il cibo a tempo debito? Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà ad agire così! Davvero io vi dico: lo metterà a capo di tutti i suoi beni. Ma se quel servo malvagio dicesse in cuor suo: “Il mio padrone tarda”, e cominciasse a percuotere i suoi compagni e a mangiare e a bere con gli ubriaconi, il padrone di quel servo arriverà un giorno in cui non se l’aspetta e a un’ora che non sa, lo punirà severamente e gli infliggerà la sorte che meritano gli ipocriti: là sarà pianto e stridore di denti» (Mt 24,44-51).
Nutrire e guidare
Il primo aspetto che rende drammatica ogni responsabilità nella Chiesa, a tutti i livelli, è il quadro escatologico nel quale essa è affidata e richiesta. Gesù ci chiede di viverla dentro la vigilanza per la venuta del Figlio dell’uomo. Chi riceve un potere nella Chiesa non è invitato a pensare anzitutto allo spazio dentro il quale esso deve essere esercitato, ma al tempo determinato dall’imminenza imprevedibile della venuta di Cristo. L’autorità va vissuta «tenendosi pronti» ad accogliere il Figlio dell’uomo che viene a dar compimento all’universo e alla storia. Questo «tenersi pronti» è un’attenzione molto densa, che non si limita a guardare le nuvole nell’attesa di Cristo, come hanno fatto istintivamente gli apostoli dopo la sua ascensione: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo» (At 1,11).
Nella parabola che abbiamo appena letto Gesù dice esplicitamente cosa bisogna guardare invece che alle nuvole: «Chi è dunque il servo fidato e prudente, che il padrone ha messo a capo dei suoi domestici per dare loro il cibo a tempo debito? Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà ad agire così!” (Mt 24,45-46). Il servo è messo a capo dei suoi compagni di servizio «per dare loro il cibo a tempo debito». Questa immagine ci può sembrare un po’ terre à terre, eppure anche al primo degli apostoli, Pietro, cioè alla massima autorità nella Chiesa, nel momento culminante della sua vocazione non è stato affidato da Gesù Risorto altro compito che questo:
«Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?”. Gli rispose: “Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene”. Gli disse: “Pasci i miei agnelli”. Gli disse di nuovo, per la seconda volta: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami?”. Gli rispose: “Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene”. Gli disse: “Pascola le mie pecore”. Gli disse per la terza volta: “Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?”. Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: “Mi vuoi bene?”, e gli disse: “Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene”. Gli rispose Gesù: “Pasci le mie pecore”» (Gv 21,15-17).
Gesù ha appena dato da mangiare ai discepoli: «Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro…». Un pasto di pesce, preparato da Gesù stesso e aumentato dai pesci portati dai discepoli, ma pescato grazie al miracolo reso possibile dalla presenza e dal comando del Risorto (cf. Gv 21,1-14). È in questo quadro eucaristico che Gesù chiede a Pietro il suo amore per corrispondere al suo, che ha dato per lui e per tutti la vita sulla croce. Ed è in questo quadro eucaristico che Gesù dà a Pietro e alla Chiesa la missione di pascere il gregge. «Pascere» vuol dire anzitutto nutrire, far mangiare le pecore, preoccuparsi che trovino pascolo, luoghi in cui possano mangiare erba verde e bere acqua fresca. È ciò che esprime il bel Salmo 22:
«Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla. Su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce. Rinfranca l’anima mia, mi guida per il giusto cammino a motivo del suo nome. (…) Davanti a me tu prepari una mensa sotto gli occhi dei miei nemici. Ungi di olio il mio capo; il mio calice trabocca» (Sal 22,1-5).
Nei tre «Pasci!» che il Risorto domanda a Simon Pietro, il Vangelo utilizza due verbi greci: boskō (Gv 21,15.17) e poimainō (Gv 21,16). Il primo allude al fatto di “procurare il cibo” al gregge, il secondo sembra si riferisca più al compito complessivo di “pascere” il gregge, cioè di guidarlo, sorvegliarlo, proteggerlo, ma sempre anche di procurargli acqua e cibo fresco. Perché, infatti, si fa pascolare un gregge, lo si guida, se non per condurlo, come dice appunto il Salmo 22, a pascoli erbosi e ad acque tranquille?
Ogni ruolo pastorale nella Chiesa, ogni autorità data da Cristo sulle pecore e il gregge, contiene sempre il compito fondamentale di nutrire gli agnelli, le pecore, il gregge, affinché vivano, affinché crescano, affinché possano essere fecondi e diventare capaci a loro volta di pascere altre pecore, di nutrire e guidare altre greggi.
Il ruolo essenziale del pastore (uomo o donna che sia) è quello di nutrire le pecore perché abbiano la vita. Gesù lo dice e ripete nel capitolo 10 di Giovanni: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore» (Gv 10,11). Come la dà? Facendosi pane vivo, donando il suo Corpo e versando il suo Sangue come cibo e bevanda di vita eterna (cf. Gv 6).
Il pane è la Parola di Dio
Questo dono sacramentale di Cristo non è semplice pane, non è semplice vino. È il Verbo di Dio fattosi carne (Gv 1,14). Infatti, come lo ricorda Gesù stesso al demonio per opporsi alla sua tentazione: «Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4,4). Nella fonte di questa parola nel Deuteronomio, Mosè spiega che anche il dono della manna, del nutrimento fisico che Dio dà al popolo, è per condurci a nutrirci della parola di Dio:
«Egli ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore» (Dt 8,3).
Il pane della Parola di Dio nutre e guida il popolo e solo ponendosi al servizio dell’ascolto della Parola di Dio, del Verbo di Dio che è Cristo, del Vangelo, il pastore pasce veramente le pecore, le nutre, le guida, le protegge, le libera.
Per questo, quando è sorto un malcontento nella comunità cristiana riguardo alla distribuzione del cibo materiale, subito gli apostoli hanno capito che l’essenziale per loro era di servire il pane della Parola: «Non è giusto che noi lasciamo da parte la parola di Dio per servire alle mense» (At 6,2).
È interessante notare che poi anche per i diaconi, istituiti per servire alle mense, il ministero su cui si insisterà maggiormente non sarà questo servizio pratico, ma ancora e sempre quello della Parola di Dio, dell’annuncio, della catechesi, della testimonianza pubblica. L’esempio di santo Stefano mostra con chiarezza che anche i diaconi è soprattutto con l’annuncio della Parola che danno la loro vita per le pecore.
Non posso approfondire questo tema come meriterebbe. Ma ci tengo a sottolineare che se vogliamo capire come siamo chiamati a svolgere una responsabilità pastorale nelle nostre comunità e nell’Ordine, a tutti i livelli, e se vogliamo capire come evitare o riparare gli abusi di potere, è importante mettere a fuoco questo aspetto. Se l’autorità nella Chiesa è chiamata a pascere le pecore, il gregge, se è chiamata a nutrire e guidare i fratelli e le sorelle, non dobbiamo dimenticare che questo ministero è per Cristo e per la Chiesa essenzialmente un servizio della Parola di Dio, della Parola che sola nutre veramente il cuore degli uomini e li guida sul giusto cammino.
Ho già ripetuto in varie occasioni l’ultima parola che l’abate Godefroy di Acey mi ha detto prima di lasciare la casa di montagna di Hauterive per l’escursione in bicicletta e in montagna in cui ha trovato la morte nel pomeriggio del 3 agosto scorso. Aveva raggiunto me e un altro confratello il giorno prima e doveva restare con noi una settimana. Come ho raccontato, al momento della sua partenza stavo dipingendo un acquerello di un pastore in cammino circondato da una dozzina di pecore. Si era chinato a guardarlo e gli dissi che non era riuscito perché qualcosa non mi soddisfaceva nelle proporzioni fra il pastore e le pecore. Lui mi disse, e fu praticamente l’ultima parola della sua vita: «No, va bene. Ma si dovrebbe mettere le orecchie alle pecore!».
Questo consiglio, da allora, non mi stanco di meditarlo, e capisco che allude al compito essenziale che san Benedetto assegna all’abate del monastero. Ne parlavo recentemente nell’omelia della Benedizione dell’abbadessa di Seligenthal:
«San Benedetto era estremamente cosciente che il primo servizio dell’autorità è il servizio della Parola di Dio da offrire costantemente ai fratelli e sorelle come luce dei passi sul cammino che ci conduce alla vita eterna. Sembra anzi che tutta la responsabilità del superiore, quella su cui sarà giudicato alla venuta di Cristo, sia proprio quella di un insegnamento che permetta ai fratelli e sorelle di ascoltare la chiamata del Verbo, la chiamata dello Sposo all’unione con Lui.
Scrive Benedetto nel capitolo 2 della Regola: “L’abate non deve insegnare, stabilire o comandare nulla che sia estraneo al comandamento del Signore; piuttosto le sue disposizioni e il suo insegnamento devono cadere nell’animo dei discepoli come un fermento di giustizia divina. Si ricordi sempre l’abate che nel tremendo giudizio di Dio saranno valutate tutte e due le cose: il suo insegnamento e l’obbedienza dei discepoli” (RB 2,4-6).
L’obbedienza dei discepoli, prima che un “fare” è un “ascoltare”, come lo suggerisce d’altronde l’etimologia ben nota del termine obbedienza: ob-audire. L’obbedienza è un ascolto intenso, che coinvolge tutta la libertà e decisione, che coinvolge il cuore. Senza di essa, difficilmente si può seguire Cristo con tutto il cuore, cioè non solo esteriormente, apparentemente, ma realmente, con tutto se stessi. L’ascolto dei discepoli deve perciò essere la preoccupazione prioritaria di chi li guida» (Benedizione abbaziale di Madre Christiane, Seligenthal, 19.08.2023).
Il campo dell’autorità è la libertà
Essere coscienti che san Benedetto rende il superiore o la superiora del monastero responsabile davanti al giudizio finale di Dio «del suo insegnamento e dell’obbedienza [cioè dell’ascolto] dei suoi discepoli» (RB 2,6) significa aver coscienza che il campo dell’autorità nella Chiesa, prima che essere la disciplina, il buon funzionamento e l’ordine delle persone e comunità, è essenzialmente la loro libertà attirata da Dio all’amicizia con Lui.
La nostra responsabilità non è anzitutto disciplinare, cioè: non siamo responsabili in primo luogo di ciò che i fratelli o le sorelle fanno o non fanno. San Benedetto era più preoccupato che le pecore del gregge “avessero orecchie” per ascoltare la voce del Signore, e questa è la responsabilità che ogni pastore di comunità deve avere, una responsabilità che si esercita prima di tutto con la propria obbedienza, il proprio ascolto della parola di Dio, della voce dello Sposo.
Questo vuol dire che non si lotta contro l’abuso di potere anzitutto con protocolli di comportamento per evitare gli errori e gli atteggiamenti sbagliati. Certo, anche questi ci vogliono, ma sono come argini che hanno senso e servono a qualcosa se il fiume scorre. Se il fiume è secco, gli argini sono inutili.
Anche san Benedetto mette in guardia l’abate contro possibili derive dell’esercizio della sua autorità, per esempio le preferenze di persone (RB 2,16ss), oppure la preoccupazione più per le cose «transitorie, terrene e caduche» che per le anime (RB 2,33). Oppure una tendenza al perfezionismo che porta a grattare tanto la ruggine da rompere il vaso (RB 64,12). O la gelosia verso i propri collaboratori (RB 65,22). Anche il non ricorrere al consiglio della comunità o degli anziani è un abuso in cui l’abate può cadere (RB 3,13). Anche il non correggere per viltà i fratelli viziosi può essere un grave abuso, un abuso di omissione nell’esercizio dell’autorità che ci è affidata (RB 2,26). Nella Regola si possono fare molti esempi di come un superiore o il responsabile di un ambito della vita comunitaria possa cadere in un uso sbagliato della sua responsabilità.
Ma la grande e costante preoccupazione di san Benedetto è che l’abate edifichi l’ascolto dei fratelli con un insegnamento di sapienza attinto dalla Parola di Dio e della Chiesa. L’insegnamento che trasmette veramente la Parola di Dio, che trasmette veramente Cristo, il Verbo della vita, libera il cuore e l’anima delle persone perché non le attira a sé, a chi insegna, a chi governa, ma al Signore che chiama ognuno a seguirlo, che attira ognuno all’amicizia con Lui.
Quando questo impegno viene trascurato, e purtroppo vedo che viene spesso trascurato, allora tutto quello che un superiore domanda, esige, consiglia, decide, permette o vieta, tutto può diventare abusivo, perché è come se non si rivolgesse alla libertà delle persone; non tanto alla libertà di scegliere, ma la libertà che Dio attira a Sé con amore e come amore. Se non ci si rivolge a questa libertà, se non ci si rivolge al cuore fatto per Dio, si finisce per rivolgersi solo alla volontà di accettare o rifiutare di entrare in uno schema. In altre parole: chi non trasmette la voce dello Sposo che chiama e attira i cuori all’unione con Lui e in Lui, immancabilmente propone una morale, delle regole di comportamento, non una vita, quella per cui siamo stati creati dal Padre e chiamati dal Figlio nel dono dello Spirito.
Un’autorità umile e povera
Vivere così l’autorità, più che capacità, richiede povertà, richiede umiltà. Anzitutto una povertà di fronte a Dio, la povertà umile di ascoltare per primi, di avere per primi fame e sete della Parola di Dio più di ogni altra cosa. La povertà di rinunciare per primi a soddisfarci di altre cose, di altre soddisfazioni, che non siano Cristo stesso, lo Sposo che viene.
Il servitore infedele della parabola che citavo all’inizio è condannato perché oltre a maltrattare i suoi compagni, si mette a nutrirsi e ubriacarsi di quello che dovrebbe dare ai fratelli e non desidera più che il padrone ritorni.
«Se quel servo malvagio dicesse in cuor suo: “Il mio padrone tarda”, e cominciasse a percuotere i suoi compagni e a mangiare e a bere con gli ubriaconi, il padrone di quel servo arriverà un giorno in cui non se l’aspetta e a un’ora che non sa, lo punirà severamente e gli infliggerà la sorte che meritano gli ipocriti: là sarà pianto e stridore di denti» (Mt 24,48-51).
Gesù lo definisce «ipocrita». Nel suo caso l’ipocrisia consiste nello sfruttare a suo vantaggio un compito che il padrone gli ha affidato per il bene degli altri. Abusa del potere cercando il suo interesse invece di esercitarlo per l’interesse del suo prossimo e del padrone stesso. Mangia lui il cibo che dovrebbe distribuire. Prende per sé quello che dovrebbe donare se fosse obbediente e fedele: «Chi è dunque il servo fidato e prudente, che il padrone ha messo a capo dei suoi domestici per dare loro il cibo a tempo debito?» (Mt 24,45).
Dio ci affida un’autorità, un potere, per dare ai nostri fratelli e sorelle il cibo a tempo debito, per trasmettere agli altri il nutrimento di cui hanno bisogno secondo i momenti e le circostanze della vita. Mancare a questo per un interesse proprio è un abuso ipocrita della responsabilità ricevuta. L’autorità, la responsabilità, più che una funzione è un carisma. Dio ci dà i talenti e i doni necessari al bene e alla crescita dei fratelli, delle sorelle. È un dono dell’amore di Cristo, un dono del Buon Pastore, un dono che, quando ci manca, dobbiamo chiedere certi di riceverlo, perché Dio non ci nega mai ciò che è necessario al bene degli altri. Lo Spirito non nega mai ai pastori i doni necessari alla crescita e al cammino delle pecore.
Spesso, quando richiamo ai superiori il loro compito di insegnamento perché i fratelli o sorelle possano “avere le orecchie” per ascoltare il Signore e seguirlo con amore, e quindi per vivere la nostra vocazione con amore e gioia, mi dicono che non ne sono capaci, che si sentono vuoti, aridi, che non hanno idee. È una risposta che tradisce una falsa impostazione e comprensione dell’autorità. Infatti, non siamo chiamati a dare quello che viene da noi, a trasmettere idee nostre, parole nostre. Siamo chiamati a trasmettere la Parola di Dio. E questo non è possibile senza ricevere per primi quello che dobbiamo dare. Non è possibile dare senza domandare questo dono da trasmettere. E qui vedo spesso che è a questo livello il vero problema di noi superiori e superiore: non chiediamo a Dio la sua Parola. In altre parole: non ascoltiamo, o, in altre parole ancora: non facciamo silenzio.
Dare orecchie ai pastori
Raccontavo a un superiore generale la parola che mi aveva detto Dom Godefroy sulle orecchie delle pecore. E lui mi ha detto: «Molto vero! Però non sono solo le pecore che hanno bisogno delle orecchie, ne hanno bisogno anche i pastori!». Certo! Anzi: soprattutto i pastori hanno bisogno di orecchie, di orecchie rivolte a Dio, a Cristo, ma anche ai fratelli e sorelle; di orecchie tese ai poveri.
Tanti abusi nascono proprio dal fatto che certi superiori non ascoltano nessuno, ascoltano solo se stessi. Non ascoltano Dio nella preghiera, non ascoltano con umiltà i superiori sopra di loro, non ascoltano la comunità, non ascoltano i loro consiglieri, ecc.
Sempre nella parabola che abbiamo meditato c’è una frase che ci aiuta a capire dove inizia l’abuso di potere di chi ha ricevuto un’autorità. È là dove Gesù dice: «Ma se quel servo malvagio dicesse in cuor suo: “Il mio padrone tarda”» (Mt 24,48). È proprio qui che inizia l’abuso: nel dire a se stessi quello che fa comodo, quello che sembra darci più potere, più incolumità, nel coltivare nel cuore una falsa verità su Cristo e quindi su tutto e su tutti, una menzogna che non corrisponde alla realtà del Regno di Dio. Infatti il Signore in realtà viene presto, svela l’ipocrisia del servo malvagio e gli chiede conto di tutto. Questa frase ci aiuta a capire che per esercitare con verità la nostra responsabilità la cosa più importante è la custodia della verità nel nostro cuore, nei nostri pensieri, e quindi la disponibilità costante alla conversione del cuore.
È anche in questo che i superiori devono aiutarsi fra loro, con fraterna amicizia. Chi ha autorità non deve vegliare solo sul gregge: deve vigilare anzitutto sul suo cuore, su quello che il suo cuore dice a se stesso. Ci sono discorsi che facciamo al nostro cuore che non ascoltano la voce di Dio, che ascoltano di più la voce del tentatore, del diavolo che sempre viene a lusingarci con l’offerta del suo potere mondano come se fosse più grande e vero dell’umile potere di Cristo crocifisso, di Cristo che lava i piedi dei discepoli, di Cristo che sta in mezzo agli altri come colui che serve, che ama, che si sacrifica, che porta frutto cadendo in terra e perdendo la sua vita per noi.
Questo lavoro di conversione del cuore non è un’ascesi intimistica, individuale: è il “basso continuo” di un cammino sinodale, in cui scopriamo che camminare con gli altri, ascoltarsi a vicenda, la condivisione, è ciò che ci fa crescere in profondità, che ci fa progredire e ci purifica interiormente, rendendoci strumenti di comunione. Perché Dio ci ha dato un cuore assetato di comunione, un cuore a immagine del Cuore trinitario di Dio in cui nessuna Persona può dire “io” senza pensare al “noi”.
Ma questo è un aspetto a cui non posso che accennare, anche se è fondamentale. Grazie a Dio lo approfondiremo camminando insieme con tutta la Chiesa nel percorso sinodale di questi anni di cui abbiamo tutti un grande bisogno.

La situation actuelle de l’Inde sur la scène internationale
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Ouverture sur le monde
Dom Jean-Pierre Longeat, osb
Président sortant de l’AIM
La situation actuelle de l’Inde sur la scène
internationale : un acteur incontournable
L’Inde, une nation en pleine ascension, occupe aujourd’hui une place centrale dans le paysage international. Avec une population dépassant 1,4 milliard d’habitants, elle est désormais le pays le plus peuplé du monde, dépassant la Chine en 2023. Cette dynamique démographique, associée à une croissance économique rapide, confère à l’Inde une importance stratégique croissante tant sur le plan régional que international.

Une économie en pleine croissance
L’économie indienne est l’une des plus dynamiques au monde, enregistrant des taux de croissance annuels impressionnants, souvent supérieurs à 6-7 % ces dernières années. Le pays est aujourd’hui la cinquième économie mondiale en PIB nominal et pourrait bientôt surpasser des géants comme l’Allemagne et le Japon pour se hisser à la troisième place. Cette expansion économique est alimentée par une classe moyenne en pleine croissance, un secteur technologique florissant, et une main-d’œuvre jeune et nombreuse.
Un acteur géopolitique clé en Asie
Sur le plan géopolitique, l’Inde est un acteur majeur en Asie du Sud et au-delà. Elle exerce une influence considérable sur ses voisins immédiats, notamment le Pakistan, le Bangladesh, le Népal et le Sri Lanka. L’Inde est également un membre clé du BRICS , une alliance de pays émergents qui cherchent à remodeler l’ordre économique mondial.
Face à la montée en puissance de la Chine, l’Inde a renforcé ses alliances stratégiques, notamment avec les États-Unis, le Japon et l’Australie, dans le cadre du Quad, une coalition visant à maintenir l’équilibre des pouvoirs en Indo-Pacifique. La rivalité avec la Chine, exacerbée par des conflits frontaliers dans l’Himalaya, pousse l’Inde à moderniser rapidement ses forces armées et à renforcer sa posture diplomatique.
Une diplomatie axée sur le multilatéralisme
L’Inde a adopté une diplomatie multilatérale proactive, jouant un rôle crucial dans des organisations internationales telles que l’ONU, où elle aspire à un siège permanent au Conseil de sécurité. Le pays a également pris des initiatives dans le domaine du changement climatique, avec des engagements ambitieux pour réduire ses émissions de carbone et promouvoir les énergies renouvelables, notamment à travers l’Alliance solaire internationale.
En tant que président du G20 en 2023-2024, l’Inde a utilisé cette plateforme pour mettre en avant les préoccupations des pays en développement, soulignant son rôle de leader dans la promotion d’un ordre mondial plus équitable.
Les défis internes et internationaux
Malgré ses succès, l’Inde fait face à des défis significatifs. Sur le plan interne, les inégalités économiques persistent, la pauvreté reste un problème majeur, et des tensions communautaires menacent la cohésion sociale. Sur la scène internationale, l’Inde doit naviguer dans un contexte de rivalités géopolitiques complexes, notamment avec la Chine et le Pakistan, tout en s’efforçant de maintenir des relations équilibrées avec les grandes puissances mondiales.
La religion en Inde : complexité et influence dans la société contemporaine
L’Inde, connue pour sa diversité culturelle et religieuse, est un pays où la religion joue un rôle central dans la vie quotidienne de ses habitants. Avec une histoire riche en traditions religieuses, l’Inde abrite certaines des plus grandes religions du monde, telles que l’hindouisme, l’islam, le christianisme, le sikhisme, le bouddhisme et le jaïnisme. Cette pluralité religieuse, qui est à la fois une force et un défi, façonne profondément la société indienne contemporaine.
L’hindouisme : La religion majoritaire
L’hindouisme est de loin la religion la plus pratiquée en Inde, avec environ 80 % de la population se réclamant de cette foi qui englobe une vaste gamme de croyances, de pratiques rituelles, de philosophies et de traditions. Les temples hindous, les festivals religieux comme Diwali, Holi, et Navratri, ainsi que les pèlerinages tels que la Kumbh Mela, sont des éléments essentiels de la culture indienne.
Le systèmes de castes, bien qu’officiellement aboli, reste un aspect profondément enraciné dans certaines pratiques sociales hindoues. Il continue d’influencer les relations sociales, l’accès aux ressources et les opportunités économiques, malgré les efforts du gouvernement pour promouvoir l’égalité.
L’islam : Une présence importante
Avec environ 14 % de la population, l’islam est la deuxième religion la plus importante en Inde. Les musulmans indiens, qui forment l’une des plus grandes communautés musulmanes au monde, ont une influence notable sur la culture, la politique et l’économie du pays. Les mosquées, les écoles islamiques (madrassas), et les fêtes religieuses comme l’Aïd al-Fitr et l’Aïd al-Adha sont des composants de la vie indienne.
Cependant, les relations entre les communautés hindoues et musulmanes ont parfois été tendues, marquées par des épisodes de violence communautaire. Les tensions religieuses sont souvent exacerbées par des discours politiques polarisants, ce qui pose un défi à la cohésion sociale dans le pays.
Le christianisme et les autres religions
Le christianisme est pratiqué par environ 2,3 % de la population, principalement dans les États du Kerala, Goa, et au nord-est de l’Inde. Les chrétiens en Inde sont majoritairement catholiques, mais on trouve aussi des communautés protestantes et orthodoxes. L’Église en Inde est active dans le domaine de l’éducation et de la santé, avec de nombreuses écoles et hôpitaux chrétiens jouant un rôle vital dans le pays.

Le sikhisme, fondé au Punjab au 15e siècle, est pratiqué par environ 2 % de la population. Les sikhs ont une forte présence dans le nord-ouest de l’Inde où ils constituent la majorité dans l’État du Pendjab. Leurs contributions à l’agriculture, aux forces armées et à l’industrie sont largement reconnues.
Le bouddhisme et le jaïnisme, deux religions originaires de l’Inde, sont pratiqués par des minorités, mais leur influence philosophique et culturelle est immense. Le bouddhisme a une importance historique particulière, ayant été fondé par le prince Siddhartha Gautama, connu sous le nom de Bouddha, en Inde du Nord.
Les défis et enjeux religieux actuels
La diversité religieuse de l’Inde, bien que source de richesse culturelle, est également à l’origine de défis sociaux et politiques. Ces dernières années, le pays a été témoin d’une montée du nationalisme hindou, incarné par le Bharatiya Janata Party (BJP) au pouvoir, qui a été accusé de marginaliser les minorités religieuses et de promouvoir une vision de l’Inde comme nation hindoue. Cette politique a conduit à des tensions intercommunautaires, avec des violences religieuses, des lynchages en lien avec le protection des vaches sacrées, et des débats autour de la conversion religieuse.
Le gouvernement a également été critiqué pour son traitement des musulmans comme aussi des chrétiens dans des affaires telles que la loi sur la citoyenneté (CAA) de 2019, perçue par beaucoup comme discriminatoire. Ce climat de tension religieuse a provoqué des inquiétudes quant à la laïcité de l’Inde, un principe inscrit dans sa Constitution.
Conclusion
La religion en Inde est une force complexe et omniprésente qui influence tous les aspects de la vie sociale, culturelle et politique. Tandis que la diversité religieuse du pays est l’une de ses plus grandes richesses, elle constitue également un terrain fertile pour les tensions et les conflits. L’Inde moderne doit continuellement chercher un équilibre entre respect de ses traditions religieuses et promotion de la laïcité et de l’harmonie sociale, afin de préserver son unité et sa stabilité.

La foi chrétienne dévoilée avec une approche mystique orientale et occidentale par J. Monchanin, H. Le Saux et B. Griffiths
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Témoignage
Dom Dorathick Rajan, Camaldule
prieur de Shantivanam (Inde)
La foi chrétienne dévoilée avec une approche
mystique orientale et occidentale
par J. Monchanin, H. Le Saux et B. Griffiths
I- L’exploration mystique de la Trinité de Jules Monchanin
Jules Monchanin était un prêtre, philosophe et mystique français visionnaire qui a consacré sa vie à l’étude et à l’interprétation de la spiritualité, en particulier du concept fascinant et fondateur du christianisme, connu sous le nom de Trinité. La Trinité, dans la théologie chrétienne, fait référence à la foi au « Dieu en trois personnes » – le Père, le Fils et le Saint-Esprit. J. Monchanin a approfondi ce concept en offrant des idées et des perspectives uniques qui trouvent un écho auprès des chercheurs de sagesse mystique.
Comprendre la Trinité d’un point de vue mystique - Reconnaître la nature trinitaire de la réalité
J. Monchanin voit que le concept de la Trinité ne se limite pas au christianisme mais s’étend au-delà des frontières religieuses. Il croyait que la Trinité était une qualité inhérente à la structure même de la réalité. Tout comme il existe trois personnes distinctes mais interdépendantes de la Trinité, J. Monchanin soutient que toute vie consiste en trois éléments interdépendants : la conscience physique, la conscience spirituelle et la conscience transcendantale en tant que principe unificateur. Selon J. Monchanin, l’essence de la Trinité réside dans le principe de conscience, qui imprègne tous les aspects de l’existence. Il décrit la conscience comme une force unificatrice à travers laquelle s’expriment les aspects physique, spirituel et transcendantal. Dans cette compréhension, la conscience agit comme le pont entre le matériel et le divin.
La Trinité et le voyage spirituel
En explorant la Trinité, J. Monchanin a souligné l’importance du voyage spirituel et de la recherche de la connaissance de soi. Il a suggéré que, tout comme la Trinité représente trois réalités, les individus ont une trinité intérieure – l’esprit, le cœur et l’âme – et qu’en harmonisant ces trois aspects, on peut entreprendre un voyage transformateur vers l’éveil spirituel et l’union avec Dieu.
La pertinence de la Trinité de J. Monchanin aujourd’hui :
– Faire le pont entre la science et la spiritualité
La compréhension de la Trinité par J. Monchanin est un pont entre le scientifique et le spirituel, créant une vision globale qui intègre les deux. Alors que la science continue d’explorer l’interdépendance de l’univers, les idées de J. Monchanin créent un cadre métaphysique pour reconnaître l’unité de toute existence.
– Embrasser la diversité et l’unité
Dans un monde marqué par la division et le conflit, la Trinité de J. Monchanin nous rappelle l’unité essentielle dans la diversité. En reconnaissant le physique, le spirituel et le transcendant, nous pouvons apprécier la beauté des systèmes de croyances et trouver un terrain d’entente pour promouvoir l’harmonie et la compréhension.
– Éveiller la Trinité intérieure
Le concept de J. Monchanin de la trinité en nous – esprit, cœur et âme – offre un chemin profond vers la croissance personnelle et la découverte de soi en nourrissant les trois aspects de notre être. Nous pouvons nous lancer dans un voyage de transformation qui suit la plénitude, l’équilibre et le but de nos vies. Les recherches de Jules Monchanin sur la Trinité vont au-delà des explications religieuses traditionnelles, offrant une compréhension mystique qui résonne avec ceux qui recherchent la sagesse spirituelle au-delà des traditions. En reconnaissant la Trinité de l’existence et en embrassant l’unité de la diversité, nous pouvons entreprendre un voyage transformateur vers la réalisation de soi et une relation plus profonde avec Dieu. La Trinité de Monchanin sert de lumière directrice, combinant les aspects scientifiques et spirituels et nous rappelant l’interdépendance profonde des aspects physiques, spirituels et transcendantaux. Embrassons cette unité et embarquons-nous pour un voyage vers une plus grande conscience et un éveil spirituel.
II- Les enseignements de Swami Abhishiktananda (Henri Le Saux)
À la découverte de l’Advaita Vedanta
Swami Abhishiktananda, également connu sous le nom d’Henri Le Saux, était un moine bénédictin français qui a consacré sa vie à l’étude et à la pratique de l’Advaita Vedanta. Il a passé plusieurs années en Inde, s’immergeant dans la tradition hindoue et s’efforçant de combler le fossé entre le christianisme et l’hindouisme.
Comprendre l’Advaita Vedanta
L’Advaita Vedanta est une école de philosophie hindoue qui met l’accent sur l’unité de la vie et la réalité ultime également connue sous le nom de Brahman. Le mot « Advaita » se traduit par « non-duel ». Selon l’Advaita Vedanta, il n’y a pas de différence entre l’âme individuelle (Atman) et l’âme universelle (Brahma) car elles sont une par nature.
Le voyage de Swami Abhishiktananda
Swami Abhishiktananda a passé de nombreuses années de sa vie dans des ashrams indiens et dans des discussions spirituelles profondes avec des sages hindous. Avec un désir sincère de réconcilier sa foi chrétienne avec les connaissances plus profondes acquises grâce à l’Advaita Vedanta, Swami Abhishiktananda s’est lancé dans un remarquable voyage de découverte de soi.
L’unité de la spiritualité
Swami Abhishiktananda croyait fermement en l’unité qui sous-tend tous les chemins spirituels. Il voyait l’Advaita Vedanta comme un moyen pour les individus de transcender les frontières religieuses et d’atteindre la vérité universelle qui sous-tend toutes les croyances. Selon Swami Abhishiktananda, l’essence de la spiritualité ne se limite pas à des rituels ou à des enseignements spécifiques, mais à l’expérience directe du divin intérieur.
L’Advaita Vedanta et le christianisme
Les recherches de Swami Abhishiktananda sur l’Advaita Vedanta ont grandement influencé sa compréhension du christianisme. Il a trouvé des similitudes entre le concept de Brahman dans l’hindouisme et la compréhension chrétienne de Dieu. Pour Swami Abhishiktananda, la réalisation de la réalité non duelle était apparentée à l’idéal chrétien d’union avec Dieu. Comme le dit saint Paul, avec la comparaison du Corps du Christ : nous constituons, chacun, les nombreuses parties d’un seul corps, et nous appartenons tous les uns aux autres.
L’illusion de la séparation
L’un des principaux enseignements de l’Advaita Vedanta est le concept de maya ou d’illusion. Swami Abhishiktananda a compris qu’en fin de compte notre perception de la séparation divine est une illusion causée par l’ego. La libération spirituelle peut être atteinte en transcendant les limitations de l’ego et en abandonnant l’illusion de la séparation.
Le chemin de l’introspection
Au centre des enseignements de Swami Abhishiktananda se trouvait la pratique de l’introspection connue dans l’Advaita Vedanta sous le nom d’Atma Vichara. Ce processus implique de remettre en question la vraie nature de l’homme et de découvrir le divin sous-jacent. En s’intéressant à soi-même, on peut transcender les mouvements de l’esprit humain et expérimenter directement l’unité de l’existence.
Vivre dans le moment présent
Swami Abhishiktananda a souligné l’importance de vivre dans le moment présent comme moyen de transcender le temps et l’égoïsme illusoire. On peut s’immerger complètement dans le présent et acquérir une conscience profonde pour se connecter au divin éternel.
Amour et compassion universels
Swami Abhishiktananda croyait que l’unité visible avec le divin conduit naturellement à une effusion d’amour et de compassion cosmiques. Lorsque l’on réalise que notre propre moi est divin, il devient impossible pour les autres de faire preuve de discrimination ou d’avoir des préjugés. Les enseignements de l’Advaita Vedanta encouragent l’individu à voir le divin dans tous les êtres et à les traiter avec amour et respect.
Le voyage de Swami Abhishiktananda à travers l’Advaita Vedanta était une exploration de la relation profonde entre le christianisme et l’hindouisme. Ses enseignements mettent l’accent sur l’unité de tous les chemins spirituels et l’universalité de la vérité divine. En adoptant les enseignements de l’Advaita Vedanta et en s’engageant dans le voyage transformateur de la réalisation de soi, on peut faire l’expérience de l’unité éternelle qui réside en chacun de nous.
III- L’union unique : exploration du mariage entre l’Orient et l’Occident – Bede Griffiths
Dans un monde de mondialisation croissante, l’échange d’idées et de cultures est devenu plus répandu que jamais. Un domaine dans lequel cet échange est particulièrement questionnant est celui de la spiritualité et des pratiques religieuses. Bede Griffiths est l’un des individus qui a consacré sa vie à combler le fossé entre les traditions spirituelles orientales et occidentales.
Jeunesse et parcours spirituel
Bede Griffiths a été profondément influencé par son premier enracinement dans la tradition chrétienne occidentale. Cependant, son parcours spirituel a pris un tournant décisif lorsqu’il a rencontré les enseignements mystiques de l’Orient. En étudiant l’hindouisme et le bouddhisme, B. Griffiths a commencé à reconnaître les points communs qui reliaient ces traditions orientales à ses croyances occidentales.
Le virage vers les traditions orientales
Le profond intérêt de Bede Griffiths pour la spiritualité orientale l’a conduit à voyager en Inde dans les années 1950, où il a finalement choisi de s’installer dans un monastère bénédictin. Cela a commencé un voyage de toute une vie reliant l’Occident et l’Orient. Embrassant les enseignements de l’hindouisme et du bouddhisme, B. Griffiths a cherché à réconcilier ces traditions avec ses racines chrétiennes.

Dialogue et coopération interreligieux
L’une des contributions les plus importantes de Bede Griffiths a été son engagement indéfectible en faveur du dialogue et de la coopération interreligieux. Il croyait fermement que grâce à une communication ouverte et respectueuse, les personnes de différentes religions pouvaient trouver un terrain d’entente et favoriser la compréhension mutuelle. B. Griffiths a encouragé les médecins des traditions orientales et occidentales à se réunir et à échanger des idées significatives.
Spiritualité universelle
La vision plus large de Bede Griffiths était la création d’une spiritualité universelle au-delà des frontières religieuses. Il croyait fermement qu’au cœur de chaque tradition spirituelle, quel que soit son contexte culturel ou historique, se trouvait une vérité partagée. Embrassant cette vérité universelle, B. Griffiths a entrepris de créer un cadre spirituel qui pourrait être utilisé par des individus d’horizons divers.
Le rôle des pratiques contemplatives
Les pratiques contemplatives ont joué un rôle important dans l’exploration de Bede Griffiths sur le mariage Est-Ouest. Ces pratiques basées sur la méditation, la prière, etc., ont permis aux individus de se connecter plus étroitement au divin et de surmonter les limites de leur ego. Bede Griffiths a recommandé des pratiques de méditation issues des traditions d’inclusion orientales et occidentales, et a reconnu leur pouvoir transformateur pour promouvoir la croissance spirituelle.
Héritage et impact
Le travail révolutionnaire de Bede Griffiths inspire et touche des individus du monde entier. Son engagement indéfectible en faveur du dialogue interreligieux et d’une vision de la spiritualité universelle a eu un impact durable sur la façon dont nous comprenons et pratiquons la spiritualité aujourd’hui. Ses écrits, ses enseignements et son œuvre locale (Le nom de la Paix) sont un phare d’espoir et un rappel infini. Le pouvoir de connexion et de solidarité entre l’Orient et l’Occident, le mariage de l’Orient et de l’Occident, tel que l’envisageait Bede Griffiths, représente une union harmonieuse de traditions spirituelles. Les recherches approfondies de B. Griffiths sur les philosophies orientales et son engagement en faveur du dialogue interreligieux ont transcendé les différences culturelles et religieuses et ont produit une spiritualité universelle. Grâce à sa perspective unique, B. Griffiths a laissé une marque indélébile sur le paysage spirituel, nous rappelant le pouvoir de l’unité et de la compréhension dans un monde de plus en plus interconnecté. Dans ce voyage de conscience, il est clair que l’union de l’Orient et de l’Occident est non seulement possible mais aussi bénéfique. En adoptant les enseignements et les pratiques des deux traditions, nous nous ouvrons à un monde de croissance et de transformation spirituelles. L’héritage de Bede Griffiths témoigne du pouvoir infini de ce mariage et nous donne le plan directeur d’un avenir spirituel inclusif et intégré.
Conclusion
Il existe quatre piliers « très » essentiels pour notre vie monastique aujourd’hui, avec une dimension universelle :
Pilier 1 : Silence et solitude.
Pilier 2 : Prière et méditation.
Pilier 3 : Simplicité et pauvreté.
Pilier 4 : Communauté et travail.
L’avenir de la vie monastique est lié aux défis et aux opportunités présentés par un monde en évolution rapide. En intégrant la technologie, en adoptant un mode de vie durable, en ré-imaginant l’éducation, en ouvrant leurs portes aux visiteurs et en adoptant un équilibre délicat entre tradition et changement, les communautés monastiques peuvent rester pertinentes et continuer à remplir leur mission intemporelle en tant qu’individus qui recherchent le réconfort et un but dans un monde de plus en plus chaotique. Par conséquent, elle offre un sanctuaire de paix, de sagesse et d’illumination spirituelle.

“Abbiamo bisogno di una formazione liturgica seria e vitale”
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Liturgia
F. Patrick Prétot, osb
Istituto Superiore di Liturgia Istituto Cattolico di Parigi Abbaye de la Pierre qui Vire (Francia)
“Abbiamo bisogno di una formazione liturgica seria e vitale”
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Abate Notker Wolf (1940-2024)
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Grandi figure della vita monastica
Dom Cyrill Schäfer, osb
abbazia di Sankt Ottilien (Germania)
L’abate Notker Wolf, osb,
benedettino missionario di Sankt Ottilien
(21 giugno 1940 - 2 aprile 2024)
L’abate Notker Wolf è morto inaspettatamente la sera del 2 aprile scorso all’hotel dell’aeroporto di Francoforte-sul-Meno. Da lunedì di Pasqua stava accompagnando un pellegrinaggio in Italia sulle tracce di san Benedetto. Sentendosi sempre peggio, ha preso in anticipo il volo di ritorno per Sankt Ottilien. Durante la notte di attesa necessaria a Francoforte, è morto nella sua stanza per una crisi cardiaca. Qualche settimana prima, il suo compagno di corso e priore di lunga data, il padre Claudius Bals, l’aveva preceduto nell’eternità.
Padre Notker, tra le altre cose, ha descritto lui stesso il suo percorso di vita in diverse pubblicazioni, tra cui una biografia pubblicata nel 2010.
La sua famiglia era originaria della regione della Mosella e, durante gli anni della guerra, si era trasferita nell’Allgäu, a Grönenbach (distretto di Unterallgäu, diocesi di Augusta), dove Werner nacque il 21 giugno 1940, primogenito di Josef Wolf, sarto e operaio di fabbrica, e di sua moglie Katharina, nata Haas. La sua infanzia fu segnata da privazioni e dalla mancanza di alimenti, tanto che il bambino subì un ritardo nella crescita e dovette convivere per tutta la vita con disturbi gastrici. Conobbe suo padre solo dopo il suo ritorno dalla prigionia in Inghilterra nel 1947. Nel 1952 nacque una sorella. Dopo la scuola primaria a Grönenbach, nel 1951 proseguì gli studi alla scuola secondaria di Memmingen. Il giovane, di salute cagionevole ma molto dotato, non ebbe difficoltà nell’apprendimento soprattutto della musica e delle lingue. La lettura della rivista del monastero di Sankt Ottilien, «Missionsblätter» («Bollettino missionario») che scoprì casualmente, fu un momento decisivo nella sua vita. Le descrizioni delle vite di missionari che si sacrificavano in terre lontane lo entusiasmarono, tanto che riuscì a convincere i suoi genitori a iscriverlo al seminario missionario di Sankt Ottilien nel 1955.
La comunità del seminario, con la sua naturale atmosfera di cameratismo, una formazione umanistica di ampio respiro, il teatro e la musica nell’orchestra della scuola, lasciarono un’impronta profonda nel giovane. Dopo aver conseguito il diploma di maturità nell’estate del 1961, intraprese un pellegrinaggio a La Salette e ad Ars insieme a un compagno seminarista, prima di entrare nel noviziato del monastero. Fu in questa occasione che ricevette il nome di Notker, in onore dell’erudito monaco e poeta sangallese Notker Balbulus, la cui attività musicale affascinava il giovane candidato. Le tappe successive della sua vita monastica furono la professione temporanea (17 settembre 1962) e i voti solenni (10 ottobre 1965). A partire dal semestre invernale del 1962, iniziò gli studi di filosofia presso Sant’Anselmo. I suoi studi a Roma coincisero con l’apertura del Concilio Vaticano II che, a suo dire, lo influenzò profondamente, soprattutto nell’ambito della liturgia, della comprensione della Chiesa e della missione. A partire dal semestre invernale del 1965, proseguì gli studi di teologia a Monaco, dove già frequentava numerosi corsi di filosofia e di materie scientifiche in vista del suo dottorato. La sua ordinazione sacerdotale avvenne il 1º settembre 1968, come era consuetudine all’epoca, mentre era ancora studente di teologia. Dopo aver conseguito la laurea presso l’Università di Monaco nel 1970, padre Notker iniziò un dottorato in filosofia della natura a Sant’Anselmo, sotto la direzione del professor Zeno Bucher, OSB, al quale probabilmente era destinato a succedere. Nel frattempo, insegnava in questo stesso ambito, occupandosi anche di teoria della scienza e di questioni interdisciplinari. Durante quegli anni, si immerse profondamente nella vita di Roma, tanto da parlare l’italiano con grande naturalezza e con il dolce accento romano. Nel 1974 conseguì il dottorato con una tesi su «La visione ciclica del mondo nella Stoà». A Sant’Anselmo, fu anche direttore della Schola. In seguito riprese l’incisione di «Iubilate Deo», che la Schola aveva realizzato, accompagnandola con il suo motto abbaziale.
Un punto di svolta nella sua vita fu alla fine dell’estate del 1977: in una catena di eventi inaspettati, durante il Congresso degli Abati, l’Abate primate Rembert Weakland fu sorprendentemente nominato arcivescovo di Milwaukee, e l’arciabate di Sankt Ottilien, Viktor Josef Dammertz, venne eletto suo successore. Il 10 ottobre 1977 la comunità monastica dell’arciabbazia elesse quindi come nuovo arciabate il professore romano Notker Wolf. Fortunatamente, il nuovo Abate primate Viktor accompagnò ancora il suo successore al Capitolo generale del 1977 e i rapporti e le informazioni ricevute in quell’occasione aiutarono notevolmente il nuovo superiore a orientarsi in un ambito che gli era ancora completamente sconosciuto: la guida della Congregazione. Un altro colpo di fortuna fu la presenza di un priore estremamente competente, Paulus Hörger (1910-1996), che permise al nuovo arciabate di essere in gran parte sollevato dalla gestione quotidiana della casa madre. All’epoca, l’arciabbazia contava ufficialmente circa 380 monaci (su un totale di circa 1.100 benedettini missionari), di cui circa la metà impegnati in missioni all’estero. Lo stile del nuovo abate è stato descritto come “rapidissimo”, ma questo non fu percepito come un peso, grazie alla sua grande intelligenza, alla sua generosità e alla fiducia che riponeva nel delegare, al suo stile molto fraterno e al suo umorismo profondamente umano. Grazie alla sua ampia delega delle responsabilità interne al monastero, l’arciabate poté intraprendere ogni anno numerosi viaggi all’estero per visitare le case della Congregazione. Sotto la sua guida dinamica del nuovo arcivescovo, furono introdotti molti cambiamenti che permisero alla Congregazione di evolversi. Tra questi vi furono il passaggio dalla tradizionale missione europea alle Chiese locali, la trasformazione dei monasteri missionari affinché assumessero incarichi specifici all’interno delle diocesi, la transizione da comunità prevalentemente europee a comunità locali, l’accompagnamento o l’integrazione di comunità monastiche autoctone, come in India o in Togo, e nuove fondazioni, come quella nelle Filippine, caratterizzata da un approccio essenzialmente monastico o ancora dall’apertura al dialogo interreligioso. Quest’ultimo fu un altro aspetto fondamentale, a cui l’arciabate Notker teneva particolarmente. Per questo incoraggiò gli scambi tra monasteri cristiani e buddhisti, iniziativa che continua ancora oggi, e visitò più volte monasteri buddhisti in Giappone.

Lo scambio con la Chiesa cinese divenne una preoccupazione particolare per l’arciabate Notker. Infatti dopo l’espulsione dei missionari europei da parte del governo cinese nel 1952, i contatti con le parrocchie stabilite in quel paese erano stati interrotti. Dopo una prima timida apertura della Cina, l’arciabate Notker intraprese nel 1985 un viaggio nell’ex diocesi di Yenki/Yenji, nel nord-est della Cina. I cristiani rimasti, che spesso avevano conosciuto destini commoventi, furono raggiunti attraverso vie avventurose. L’abate lanciò allora una serie di progetti di aiuto per i vecchi territori di missione (oggi soprattutto la diocesi di Jilin), tra cui la costruzione di un nuovo seminario, un ospedale, chiese, scuole e asili, progetti sociali, la formazione continua dei sacerdoti e religiosi locali e molte Ottilienaltre iniziative. Ma soprattutto, i contatti umani furono rafforzati da numerosi inviti in Germania e visite reciproche in Cina. Diverse grandi delegazioni di vescovi cinesi in Germania contribuirono in particolare a rafforzare la fiducia.
A Sankt Ottilien, l’abate Notker ha guidato una serie di processi di rinnovamento, come la chiusura delle case esterne e delle attività che non erano più sostenibili, l’integrazione crescente di forze laiche, il rinnovamento liturgico e la grande ristrutturazione della chiesa, ogni volta coinvolgendo pienamente la comunità, evitando così conflitti. Ma soprattutto, ha introdotto cambiamenti di stile che hanno trasformato un approccio piuttosto gerarchico in forme di relazioni orizzontali. Non temeva i contatti e si esibiva anche come «abate rocker» con una chitarra elettrica durante le esibizioni del vecchio gruppo di studenti «Feedback». Ma padroneggiava anche il repertorio classico, che ha presentato per decenni con il flauto traverso durante la festa benedettina, in occasione della «serenata al lago».

Già durante il Congresso degli abati romani del 1996, l’arciabate Notker era stato indicato come possibile Abate primate, ma aveva rifiutato, invocando soprattutto i progetti molto complessi in corso in Cina. Tuttavia, quando la questione di un nuovo Abate primate si ripresentò nel 2000, l’arciabate Notker non poté più rifiutare l’incarico e si mise a disposizione il 7 settembre. In qualità di Abate primate, proseguì le sue consuete attività di viaggio, che effettuava volentieri. Durante le sue visite ai monasteri, oltre alle sue competenze linguistiche (oltre al tedesco, parlava fluentemente inglese, italiano e francese e si esprimeva in diverse altre lingue), beneficiò soprattutto della sua capacità di adattarsi a ogni situazione e a ogni persona, dimostrando una forte presenza e un autentico impegno. A Sant’Anselmo, in particolare, era in programma un grande progetto di rinnovamento e modernizzazione, comprendente tra l’altro la ristrutturazione dei locali, nuove finestre, un sistema internet performante, trasformazioni nel collegio e molto altro, il che richiese un gran numero di consultazioni e lavori in commissioni all’interno del collegio e con l’Ordine, il Vaticano e le autorità romane. Il 13 ottobre 2012, fu confermato nel suo incarico per un nuovo mandato di quattro anni durante il Congresso degli abati. Il 9 settembre 2016, durante il successivo capitolo generale, poté consegnare il suo incarico nelle mani del suo successore, Gregory Polan.
Prima del suo ritorno al monastero, la Confederazione benedettina gli offrì un viaggio intorno al mondo, affinché l’abate, grande viaggiatore, potesse visitare con un po’ più di tempo libero i luoghi che aveva spesso toccato solo a un ritmo accelerato. Successivamente tornò a Sankt Ottilien, che ha sempre chiamato con grande convinzione «la mia patria». Anche se ormai liberato da ogni impegno, continuava a impegnarsi nel monastero nel campo della pianificazione futura, della raccolta di fondi, degli interventi pubblici e trovava sempre una parola giusta durante le discussioni della comunità. Ma soprattutto, assunse un carico di lavoro impressionante e talvolta davvero incredibile di conferenze, trasmissioni radiofoniche, apparizioni in televisione, ritiri, esercizi spirituali, messe festive e manifestazioni di ogni tipo, che lo portarono in tutta la Germania e nel mondo intero. Grazie a una disciplina ferrea e a un grande senso del dovere verso gli altri, riuscì a portare a termine questo programma, anche se a volte metteva a dura prova la sua salute. D’altra parte, gli incontri con altre persone lo ispiravano e lo rallegravano, tanto che il suo gigantesco programma è sempre stato anche un elisir di vita per lui. Espresse le sue alte pretese verso se stesso nei suoi scritti sociali e spirituali, nei quali all’individuo viene concessa o richiesta molta libertà, ma anche molta responsabilità. La preghiera delle ore, che frequentava volentieri e con fedeltà, e la vita comunitaria, che evidentemente gli procurava piacere, sono sempre rimaste per lui un punto di riposo.
L’attività letteraria merita una menzione particolare. Per decenni, questa si era limitata a saggi accademici occasionali e trattati spirituali. Tuttavia, questo cambiò dopo la sua elezione a Abate primate, con un programma obbligatorio un po’ meno denso. Nel 2005, la casa editrice di Amburgo Rowohlt lo invitò a scrivere un libro, il che portò alla pubblicazione dell’opera «Worauf warten wir?» («Cosa stiamo aspettando?»), uscita l’anno successivo, che presentava tesi provocatorie sulla situazione sociale in Germania e permise all’Abate primate Notker di diventare un autore di bestseller. Da allora, l’abate Notker ha pubblicato ogni anno diversi titoli o scritto testi di ispirazione per riviste, che talvolta hanno raggiunto tirature elevate e gli hanno procurato grande simpatia da parte del pubblico, poiché trasmetteva la sua ricca esperienza di vita e di fede in modo chiaro e comprensibile.
Tra i circa trenta onori e premi ricevuti dall’abate Notker, è opportuno menzionare: Ordine bavarese al Merito (1986), la Gran Croce al Merito della Repubblica Federale tedesca (2007) e la Medaglia di Stato bavarese al Merito Sociale (2021), oltre a due dottorati honoris causa e numerose cittadinanze onorarie (tra cui quella di Norcia). Siamo grati per i numerosi semi che il nostro confratello ha potuto seminare nel corso della sua vita e preghiamo affinché il suo ultimo grande viaggio lo abbia condotto verso Colui che ha annunciato per tutta la sua vita!

Omelia ai funerali di Dom Notker Wolf
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Grandes figures de la vie monastique
Dom Jeremias Schröder, osb
Presidente della congregazione di Sankt Ottilien
Omelia ai funerali di Dom Notker Wolf
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Suor Lazare (Hélène) de Rodorel de Seilhac
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Grandi figure della vita monastica
Suor Marie-Madeleine Caseau, osb, e suor Fabienne Hyon, osb
Congregazione di Sainte-Bathilde
Suor Lazare (Hélène) de Rodorel de Seilhac
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Viaggio in India (febbraio 2024)
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Dom Jean-Pierre Longeat, osb
Presidente uscente dell’AIM
Viaggio in India (febbraio 2024)
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Viaggio in Togo, 17-24 febbraio 2024
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Dom Jean-Pierre Longeat, osb
Presidente uscente dell’AIMViaggio in Togo, 17-24 febbraio 2024
Viaggio in Togo, 17-24 febbraio 2024
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Resoconto dell’incontro dei superiori monastici dell’Africa occidentale francofona
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Suor Thérèse-Benoît Kaboré, osb (Koubri, Burkina Faso)
membro del Team internazionale dell’AIM
Resoconto dell’incontro dei superiori monastici dell’Africa occidentale francofona
Dal 19 al 25 febbraio si è tenuto presso l’abbazia dell’Assomption di Dzogbegan, in Togo, l’incontro dei superiori monastici dell’Africa occidentale francofona. Vi hanno preso parte la maggioranza dei superiori dei monasteri della subregione[1]. Erano presenti anche padre Jean Pierre Longeat, presidente dell’AIM e suor Thérèse-Benoît Kaboré, del Team internazionale dell’AIM. È stata una buona occasione di incontro, perché la maggior parte dei superiori sono stati eletti o nominati negli ultimi anni e non avevano ancora avuto il tempo di incontrarsi.
Durante i primi due giorni, i superiori hanno preso il tempo di conoscersi e presentare le loro rispettive comunità con le loro gioie e le loro pene. Hanno espresso la loro gioia nel vedere la perseveranza delle loro comunità nella vita monastica nonostante le difficoltà che non mancano. Una delle loro difficoltà riguarda il settore economico. Infatti, la grande questione della precarietà delle economie dei monasteri rimane. Le economie dei monasteri rimangono economie di sussistenza o sopravvivenza che consentono solo alle comunità di vivere giorno per giorno senza la capacità di sostenere una realizzazione importante nel monastero. I superiori hanno preso atto che occorre prendere tempo per riflettere a fondo sulla questione. È già un passo avanti! Sarebbe necessario prevedere una sessione di formazione per superiori ed economi, e anche invitare specialisti a condurre la riflessione.
Poi si sono occupati delle loro diverse strutture di formazione: la formazione per formatori, organizzata per i maestri e le maestre dei novizi francofoni, la Struttura santa Anna, l’AMORSYCA (Associazione Monastica di Riflessione sui Simbolismi nelle Culture Africane) che desiderano risuscitare e rivitalizzare, lo Studium di filosofia e teologia di Bouaké, i giovani professi monastici. Hanno anche esaminato la richiesta della «Commissione per il dialogo interreligioso monastico» (DIM/MID) che ha appena lanciato un ufficio in Africa e un membro responsabile in ogni monastero.

Negli ultimi tre giorni, i superiori hanno proseguito il loro incontro con il professor Asseman Médard Koua, che li ha accompagnati nella loro riflessione sul tema: «Abuso, leadership ed equilibrio di vita». Tema attuale, il professore ha iniziato con la questione degli abusi dentro e fuori della Chiesa. Ha cercato di definire il concetto di abuso interrogando alcune culture africane prima di stabilire una tipologia degli abusi. Ha poi considerato il concetto di genere che ha assunto un carattere particolare al giorno d’oggi. Oggi il mondo è attento alla questione del genere. Alcuni strati sociali sono considerati vulnerabili o ipervulnerabili e il diritto internazionale li tiene in considerazione e li protegge. Il professore è ritornato sui casi di abuso. Ha analizzato due categorie: l’abuso sessuale e l’abuso di potere. In quest’analisi, ha preso in considerazione la questione della gestione degli abusi. Ha insistito sulle conseguenze di questi atti sulla persona abusata, esaminando le quattro componenti della persona su cui incidono gli abusi (la componente cognitiva, la componente affettiva, la componente fisica o fisiologica e la componente comportamentale). Queste componenti devono essere prese in considerazione nella gestione degli abusi.
Il secondo giorno del suo incontro è stato dedicato alla leadership. Ha insistito sulla gestione del potere. Il leader che è chiamato a esercitare un potere deve esercitarlo in funzione della propria percezione delle cose, della sua storia, del suo stile proprio. In definitiva, esercita il potere in base a ciò che è e vuole essere attraverso il potere che esercita. Inoltre, ha dei vincoli che non deve dimenticare. È vero che rimane una persona come le altre, ma il fatto di essere detentore di un potere lo obbliga a non fare come tutti. Per illustrare meglio queste parole, il professore ha preso l’esempio dei portatori di maschera nei nostri villaggi che sono tenuti a un certo modo particolare di vita.
L’ultimo giorno del suo intervento è stato riservato alla questione dell’equilibrio di vita dove il relatore ha insistito sul fatto che il leader deve essere attento a se stesso, sapere che è vulnerabile. Deve essere attento alla propria crescita personale per essere in grado di prendersi cura degli altri. Non è il salvatore dei membri che compongono il gruppo. Egli è lì per aiutare gli altri, per accompagnarli, ma non tutto dipende da lui e per farlo, non deve cercare di fare tutto. Ha dei limiti, non deve ignorarli. Non deve confondere la sua responsabilità con la propria persona.
Il giorno dopo, i superiori hanno messo a profitto quest’ultimo intervento del professore organizzando una giornata di uscita e di relax.
Al termine della sessione, il relatore ha suggerito ai superiori di costituire due gruppi di lavoro, il primo dei quali incaricato di sviluppare una procedura per la gestione dei casi di salute mentale nelle nostre comunità, e l’altro che si occuperà della prevenzione e della gestione dei casi di abuso nei monasteri dell’Africa occidentale francofona.
I superiori sono tornati ai loro monasteri molto soddisfatti e meglio attrezzati per esercitare la loro autorità a beneficio dei fratelli e delle sorelle loro affidati.

[1] Bénin: Padre Symon Hounnouvi - del monastero Mont Thabor de Hêkanmé, Madre Laurence Bada - del monastero Saint Joseph di Toffo; Burkina Faso : Padre Jean Christophe Yameogo - dell’abbazia Saint Benoît di Koubri, e Madre Clémentine Naganda - del monastero Notre-Dame de Koubri; Costa d’Avorio: Padre Jean Hugues Djobi Dioti - del monastero Sainte Marie di Bouaké, e Madre Bernadette We - del monastero della Bonne Nouvelle di Bouaké; Guinea Conakry: Padre Paul Marie Kolié - del monastero Saint Joseph de Séguéya, e Madre Marie David Banquet - del monastero Sainte-Croix de Friguiagbé; Senegal: Padre Olivier-Marie Sarr - dell’abbazia di Keur Moussa, e Madre Blandine Marie Kuegah - dell’abbazia Saint Jean-Baptiste di Keur Guilaye; Togo: Padre Romain Botta - del monastero dell’Incarnation d’Agbang, padre Théodore Coco - dell’abbazia dell’Ascension di Dzogbégan, Madre Bénédicte Assima - dell’abbazia dell’Assomption di Dzogbégan, e Mère Christine André Amouh - del monastero dell’Emmanuel di Sadori. Vi hanno preso parte anche padre Gervais Degbe del monastero Sainte-Marie della Bouenza in Congo Brazzaville; Madre Odette Tchewouak del monastero Saint Benoît di Babété in Camerun, e le superiore dei monasteri delle redentoristine del Burkina Faso: Madre Marie Fabienne Soubeiga - del monastero Notre-Dame du Perpétuel Secours di Diabo, e Madre Marie Clarisse Zundi - del monastero di Très Saint Rédempteur di Kiri.
Cronaca del 21o Capitolo generale dellaCongregazione Sublacense Cassinese osb
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Dom Josep-Enric Parellada, osb,
abate di Montserrat (Spagna)
Cronaca del 21o Capitolo generale della Congregazione Sublacense Cassinese osb

Come preludio dell’inizio del giubileo per il Millenario dell’Abbazia di Montserrat e corrispondendo all’invito fatto dall’abate Manel Gasch, si è svolto in questo cenobio i giorni 30 agosto - 7 settembre, il XXI Capitolo generale della Congregazione Sublacense Cassinese, nel quale hanno partecipato 72 capitolari con diritto di voto, e anche una quindicina dei traduttori (tra questi l’eletto nuovo Abate presidente) e addetti alla logistica.
Tutti i capitoli generali sono il segno dell’unità nella carità di una congregazione, divenendo l’organo supremo di autorità nella congre-gazione. Ma non si tratta soltanto di una rappresentazione giuridica se non dell’incontro delle singole comunità e province per cammina-re insieme nella costruzione di un progetto comune per essere fedeli, ogni singolo monaco, ogni singola comunità, ogni provincia e l’intera congregazione allo spirito della Regola con lo scopo di non anteporre mai nulla all’amore di Cristo, il quale ci conduca tutti insieme alla vita eterna (RB 72,11-12).
Durante questi giorni c’è stata una “unica” comunità monastica tra i monaci del cenobio montserratense e i partecipanti al Capitolo generale, cioè, abbiamo pregato insieme tutte le ore canoniche e abbiamo condiviso i pranzi e la vita della comunità col fine di esprimere la fraternità che unisce tutti noi presenti nei 5 continenti.
Perciò si potrebbe dire che un Capitolo generale è come una rilettura serena, fatta in comunità (quella capitolare), della vita delle province, delle comunità e dei singoli monaci, alla luce della Parola di Dio, della Regola, e del Diritto comune e proprio (costituzioni e ordinamenti dei capitoli generali).
All’inizio delle sessioni capitolari, l’Abate presidente Guillermo Arboleda ha sottolineato «lo spirito di comunione che, sotto la guida dello Spirito Santo, deve animare le sessioni capitolari e il quotidiano della vita delle nostre comunità. Egli ha affermato, altresì, che le modifiche legislative, che impegneranno una buona parte dei lavori capitolari, devono essere vissute in quest’ottica di crescita comunita-ria nei monasteri e tra i monasteri, perché possiamo essere nel mondo segno visibile della presenza del Signore».
Anche P. Manel Gasch, abate di Montserrat, ha evocato in un breve saluto «la felice coincidenza di questo Capitolo con il Millenario dell’Abbazia di Montserrat; l’essere qui riuniti dallo Spirito da “tutti i confini della terra”; la vocazione di questa abbazia all’accoglienza, sotto la protezione della Vergine di Montserrat, “La Moreneta”».
Questo XXI capitolo ha avuto quattro grandi temi di riflessione, di condivisione e di decisione.
1. Fare il punto sulla situazione a oggi della nostra Congregazione, attraverso le relazioni dei Visitatori di ogni singola provincia e dei superiori o rappresentanti dei monasteri fuori provincia. Questi interventi ci hanno portato a prendere coscienza del momento presente che vivono le comunità e le province.
2. Relazioni da parte della Curia: Abate presidente, Procuratore generale, Economo, Visita canonica a Sant’Ambrogio. Questo capitolo è il primo dopo la ristrutturazione della sede della Congregazione.
3. Riforma della nostra legislazione. Il testo delle Costituzioni e degli Ordinamenti dei Capitoli generali era stato rivisto e fissato nel 1980. Poi si sono fatte piccole modifiche o aggiornamenti in base alla promulgazione del Codice Iuris Canonici dal 1983. Dopo più di quarant’anni era necessaria una rilettura del nostro corpus giuridico. Per questo motivo l’Abate presidente creò una commissione per fare una revisione approfondita che rispondesse alle situazione che vivono oggi le nostre comunità monastiche. Dopo un lungo lavoro di preparazione la commissione giuridica ha presentato al Consiglio dei Visitatori un testo che è poi stato inviato a tutte le comunità affinché potessero condividere le proprie suggestioni o proposte. Nel Capitolo generale è stato presentato il testo definitivo. Il lavoro capitolare è stato preceduto da una relazione sull’importanza del Diritto nella vita delle congregazioni, di P. Aitor Jimenez, claretiano, Sottosegretario del DIVCSVA. Con l’aiuto dei mezzi elettronici si sono fatte 92 votazioni.
4. Il quarto punto è stata l’elezione del P. Ignasi M. Fossas, monaco di Montserrat, come nuovo Abate presidente, che ha ricevuto la benedizione abbaziale il giorno 7 settembre dalle mani del P. Abate Manel di Montserrat.
5. Dopo la conclusione del Capitolo tutti i partecipanti erano presenti all’inaugurazione dell’anno giubilare del Millenario e alla solennità della Natività della Madonna titolare del Santuario di Montserrat.
