La formazione monastica oggi
(2a parte)
Estratto del Bollettino dell’AIM • 2021 - No 120
Riepilogo
Editorial
Dom J.-P. Longeat, osb, Presidente dell’AIM
Allenarsi nella corsa della vita monastica
Lectio divina (Non tradotto in italiano, vedi in francese, inglese o germano)
Siamo formati “stando con”
Dom Maksymilian R. Nawara, osb
Prospettive
• La formazione alla vita monastica
Dom Gregory Polan, OSB
• Il terreno fertile della formazione monastica (Non tradotto in italiano, vedi in francese, inglese o germano)
Dom Mauro-Giuseppe Lepori, OCist
• L'Istituto monastico benedettino di BECAN (Non tradotto in italiano, vedi in francese, inglese o germano)
P. Peter Eghwrudjakpor, OSB
• Formazione Ananie
Suor Marie Ricard, OSB
• Formazione monastica in Vietnam (Non tradotto in italiano, vedi in francese, inglese o germano)
Suor Marie-Lucie, OCist
• Formazione monastica in Tanzania (Non tradotto in italiano, vedi in francese, inglese o germano)
Fr Pius Boa, OSB
• Sessioni di formazione presso il monastero di Mvanda (Non tradotto in italiano, vedi in francese, inglese o germano)
M. Anna Chiara Meli, OCSO
• Una risposta benedettina inglese alla sfida della formazione continua (Non tradotto in italiano, vedi in francese, inglese o germano)
Padre Chad Boulton, OSB
Testimonoanze
Gli studi teologici in monastero
Suor Claire Cachia, OSB
Apertura sul mondo
Sfide per i cristiani e per la vita consacrata in un mondo turbolento
Prof. Italo De Sandre
Une pagina di storia
Il monastero San Benedetto di Volmoed
Fr. Daniel Ludik, OHC
Monaci e monache, testimoni per il nostro tempo
• Madre Marie-Chantal Modoux
La comunità di Encontro (Brasile)
• Charles de Foucauld (Non pubblicato nel bollettino, vedi in francese, inglese o germano)
Padre Michael Davide Semeraro, OSB
Notizie
• La fondazione di Vitorchiano in Portogallo (Non tradotto in italiano, vedi in francese, inglese o germano)
Le sorelle di Palaçoulo, OCSO
• La fondazione al Cairo (Non tradotto in italiano, vedi in francese, inglese o germano)
Fr Maximillian Musindal, OSB
• Abbazia Sainte-Marie-du-Désert
Le Village de François
Editoriale
Il tema della formazione è inesauribile. All’inizio non pensavamo certo di dedicare a questo tema due numeri del Bollettino, ma a quanto pare non basteranno. Il fatto di parlare della formazione monastica implica necessariamente un certo approccio al fenomeno monastico in quanto tale e, più ampiamente, si tratta di un modo di considerare la fede cristiana e la sua trasmissione.
[…].
Il Padre Abate Primate ci offre il suo punto di vista sul tema della formazione come pure il Padre Abate generale dei cistercensi.
Vengono poi presentati vari esempi di esperienze concrete di formazione unitamente ad alcune testimonianze, come pure si evocano alcune iniziative.
Italo de Sandre condivide le sue preoccupazioni circa i rapporti tra la vita monastica e il mondo attuale.
[…]
Lasciamoci dunque “informare” in modo profondo, così da poter realizzare la nostra vocazione. In questo tempo di crisi, è giunto il momento – mai come adesso – di coltivare quegli aspetti fondamentali che ci permettono di superare gli ostacoli e di costruire un mondo nuovo.
Dom Jean-Pierre Longeat, osb
Presidente dell’AIM
Articoli
Allenarsi nella corsa della vita monastica
1
Dom Jean-Pierre Longeat, osb
Presidente dell’AIM
Allenarsi nella corsa della vita monastica
Nell’ultima parte del prologo della sua Regola, san Benedetto presenta il monastero come una scuola del servizio del Signore. Questo significa che Benedetto intende fare della vita monastica un ambito di formazione permanente. Nello stesso prologo, Benedetto offre qualche materia dell’insegnamento che viene impartito in questa scuola; la prima e la più importante di queste materie è proprio l’ascolto esercitato in vista della messa in pratica, in modo efficace, del comandamento della carità.
Mi si permetta di evocare a questo punto uno dei versetti del prologo che, così mi sembra, offre un utile aiuto per il tema della formazione. San Benedetto non mira semplicemente alla perfezione di un’osservanza esteriore, che sarebbe in realtà il segno di riuscita alquanto illusoria nella cornice propria del tempo in cui viviamo; Benedetto si sofferma soprattutto su una prospettiva che integra la dimensione della vita eterna già attiva nell’ora presente ed è in continuo divenire aldilà del limite dell’oggi in cui si vive. È questa la ragione per cui Benedetto cita questo versetto giovanneo che sembra caratterizzare al meglio il fine della vita benedettina:
«Correte mentre avete la luce della vita, perché non vi sorprendano le tenebre della morte» (Gv 12,35 citato in RB, Prol. 13).
In san Giovanni, quando si parla della luce viene indicato il mistero di Cristo stesso, mentre le tenebre indicano l’avversario. San Benedetto interpreta questo versetto in modo un poco diverso e quasi lo deforma aggiungendovi qualcosa: «della vita» in riferimento alla «luce» e «della morte» in riferimento «alle tenebre». In tal modo insiste fortemente sul dramma della scelta che l’essere umano è chiamato a fare cogliendo l’opposizione tra il breve tempo della vita terrestre e il lungo «tempo» della morte eterna. Così Benedetto insiste in modo particolare sulla corsa necessaria e in tal modo ne accentua il carattere di urgenza.
1. Conseguenze di una prospettiva escatologica
I monaci sono chiamati a vivere in modo assai particolare: in una prospettiva escatologica. Lo stesso san Benedetto ammette che i doni dell’eternità sono in parte già offerti quaggiù (cfr. RB 7; 72 e 73) e così delinea l’attività del monaco proprio in questa tensione verso quel non-ancora accolto nel suo eterno divenire. Un certo numero di versetti della Regola evoca concretamente questa prospettiva. Infatti, san Benedetto invita il monaco a «desiderare con tutto l’ardore dell’animo la vita eterna» (4,46) come pure ad agire con «uno zelo buono che allontana dai vizi e avvicina a Dio e all’eterna vita» (72,2); proprio per questo i monaci «nulla assolutamente antepongano al Cristo il quale ci conduca alla vita eterna» (72,11). Per questo san Benedetto si rivolge ai monaci in maniera pressante: «Corriamo e operiamo all’istante tutto ciò che ci può giovare per sempre» (Prol. 44). Di fatto, nella vita monastica, non facciamo altro che formarci e prepararci alla vita sovrabbondante del Regno eterno. Quanto all’abate: «Sempre si deve ricordare che nel tremendo giudizio di Dio dovrà rendere conto…» (2,6.34.37.38.39-40).
Bisogna ricordare a questo punto la preghiera caratteristica della vita monastica, quella delle Vigilie che è un tempo di veglia teso verso la venuta di Cristo nella speranza della luce. Non c’è niente in questo che non sia semplicemente cristiano, ma i monaci accentuano in modo particolare questa dimensione. Del resto, è ciò che caratterizza al meglio la particolarità della vita monastica attraverso questo modo di rapportarsi al tempo e allo spazio che si differenzia dal modo consueto con cui gli umani vivono, appunto, il tempo e lo spazio. È una delle ragioni che rendono più difficile comprendere e persino accettare la vita dei monaci.
2. Correre
Il fatto di considerare la vita di quaggiù come un breve passaggio, in vista di una vita eterna già ora e dopo la morte, rappresenta per i monaci un invito a non perdere tempo e quindi a correre verso il fine ultimo. San Benedetto ritorna più volte su questo tema. Prima di tutto troviamo una sorta di principio generale:
«Se poi, fuggendo il castigo dell’inferno, noi desideriamo giungere alla vita eterna, mentre c’è ancora tempo per farlo, mentre cioè siamo in questo corpo e perdura l’oggi della vita presente, corriamo e operiamo all’istante tutto ciò che ci può giovare per sempre» (Prol. 42-44).
Questo passo è molto vicino alla citazione di Gv 12,35 (vedi sopra). In concreto, se si vuole vivere così, bisogna avere a cuore il desiderio di abitare nella dimora del Regno sapendo che non vi si potrà arrivare «senza correre con ardore nel compiere il bene» (Prol. 22). Così proprio «avanzando nel cammino di conversione e di fede, si corre con cuore dilatato e con ineffabile dolcezza di amore sulla via dei divini comandamenti» (Prol. 49). Possiamo cogliere la conseguenza di questa disposizione interiore nella quale il monaco ha messo il proprio desiderio: ha rivolto il suo cuore verso la vita eterna e ciò produce una tale dilatazione da farlo correre ormai sulla via dei comandamenti di Dio; il comandamento si ritrova ad essere quello che è in realtà. Non un ordine da compiere come imposizione esterna, ma come orientamento secondo il termine greco entolé, da en telos: ciò che conduce verso il fine.
Dopo aver posto questo principio di base, san Benedetto può delineare delle situazioni particolari il cui senso non lo si può cogliere se non in relazione a questo fine. L’abate, per esempio, «sia estremamente sollecito (currere) e si prodighi con tutta saggezza e perspicacia per non perdere nessuna delle pecore che gli sono affidate» (RB 27,5).
Il capitolo quinto della Regola si delinea interamente nella prospettiva di una vita sollecita nel rispondere all’appello ricevuto. Il verbo currere non viene impiegato, ma si trovano espressioni particolarmente forti che mettono il soggetto nella stessa disposizione della corsa in un continuo slancio verso la vita eterna:
«Questi dunque – sia pure consapevoli dell’impegno assunto con la professione monastica, sia perché presi dal timore (metum) dell’inferno e accesi dal desiderio della vita eterna, appena (mox) un superiore ordina loro qualcosa, come se fosse veramente comandato da Dio, non possono sopportare alcun indugio nel compierla. Costoro interrompono dunque all’istante le loro occupazioni; si staccano dalla loro propria volontà, subito (mox) pronti con le mani libere, lasciano incompiuto ciò che stavano facendo, e con una obbedienza che mette le ali ai piedi, seguono immediatamente la voce di chi comanda. Avviene perciò che, prendendo impulso dal timore di Dio, l’ordine dato dal maestro e la perfetta esecuzione del discepolo procedono insieme, rapidissimi, con una simultaneità sorprendente. E questo si verifica in quelli che, premuti dall’amore, sentono l’urgenza di raggiungere la vita eterna» (5,3.7-10).
Il dinamismo dell’obbedienza vale anche per la risposta del monaco ai segnali che chiamano alla preghiera:
«Così i monaci si tengano sempre pronti, e appena è dato il segnale, si alzino senza indugio e si affrettino cercando di prevenirsi a vicenda nell’andare all’Opera di Dio; sempre però con contegno pieno di gravità e di riserbo» (22,6).
Per due volte troviamo questo riferimento nella Regola:
«Quando è l’ora dell’Ufficio divino, appena udito il segno, si lasci tutto quanto si ha tra mano e si accorra con grande premura, ma insieme con gravità, per non offrire pretesto alla dissipazione» (43,1-2).
La prima citazione è tratta dal capitolo in cui si parla del modo in cui dormono i monaci e la seconda dal capitolo in cui si tratta di coloro che arrivano in ritardo per la preghiera o alla mensa. Bisogna riconoscere che possiamo riconoscervi una caratteristica della vita benedettina. È sempre molto toccante vedere come nei nostri monasteri i monaci accorrono in chiesa per l’ufficio divino aldilà delle ragioni per cui vi ci si recano; non è poi così sicuro che lo facciano per non perdere l’accesso alla vita eterna!
Infine, vi è un’altra dimensione dell’accorrere nella vita del monaco che san Benedetto evidenzia: l’accoglienza di un ospite o di qualcuno che bussa alla porta del monastero:
«Appena un ospite viene annunziato, subito gli vadano incontro (occurratur) l’abate e i fratelli, con ogni premurosa attenzione suggerita dalla carità» (53,3).
«Appena (mox) uno bussa alla porta, o un povero chiama […]. Risponda davvero con tutta la mansuetudine che infonde il timore di Dio e con quella prontezza (festinanter) che deriva dal fervore della carità» (66,3-4).
Ecco qui un’altra caratteristica della nostra vita benedettina, anche se oggi è talvolta ben difficile far fronte con trasporto a tutte le domande tanto che, spesso, un minimo di distanza si impone, perché si possa offrire al meglio il servizio della carità.
Questo tema della corsa trova le sue radici nella Bibbia. La stessa Parola di Dio si lancia gioiosamente per fare la sua corsa (Sal 18). Si lancia dal trono regale (Sap 18,5); Dio manda la sua parola che corre veloce (Sal 147,15). Gli uomini di Dio, i veri profeti, i sacerdoti santi e i re giusti corrono per mettere in pratica la Parola: «Come sono belli i piedi dei messaggeri di pace».
Le folle accorrono dal Battista nel deserto come pure verso Gesù lungo tutto il suo ministero pubblico. Maria parte in tutta fretta per visitare sua cugina Elisabetta dopo l’annunciazione. Con Gesù, in certi momenti, non si ha più neanche il tempo di mangiare.
I discepoli corrono verso la tomba e ritornano sempre di corsa per annunciare la risurrezione del Signore.
Dopo la Pentecoste, i discepoli corrono da tutte le parti per proclamare il Vangelo fino agli estremi confini del mondo. San Paolo corre verso la meta (Fil 3).
È urgente correre per la Buona Novella, sia per ascoltarla che per proclamarla, poiché il tempo si fa breve:
«Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino, non c’è più tempo da perdere, convertitevi e credete al Vangelo».

3. Correre senza fretta in questi tempi che sono gli ultimi
In conclusione, ecco qualche sottolineatura su questo tema di una formazione, di un esercizio nella pratica monastica così caro a san Benedetto.
I monaci corrono e accorrono: è una cosa evidente in tutti i monasteri. Ma di quale corsa si tratta? Si tratta della corsa di chi ha preso coscienza che la vita è talmente breve che non c’è più tempo da perdere?
La nostra agitazione è spesso il risultato della pressione della società contemporanea: lavoro, amministrazione e persino lo svago sono sottoposi a dei ritmi che sono da tenere a tutti i costi per non rischiare di essere messi fuori gioco e persino marginalizzati. In molti settori si è costretti a scadenze molto dure. Ma possiamo accontentarci di questo? La nostra corsa non si deve continuamente volgere verso il desiderio più grande che è quello del compimento della vita in Dio nella comunione della fraternità umana?
I monaci sono essenzialmente, come tutti i cristiani ma forse in modo ancora più sensibile, uomini dell’ottavo giorno. L’ottavo giorno si pone aldilà dei giorni: l’aldilà della storia nella storia.
Il senso della vita monastica sta proprio nell’uscire dal secolo, nel duplice senso della parola. Detto altrimenti suona come una presa di posizione, più o meno detta, che permette di vivere nel mondo senza essere del mondo.
Questa presa di posizione viene fatta in vista di un’esperienza di Dio attraverso la liberazione dalla tirannide delle passioni e per mezzo della preghiera, attraverso cui ci si sottrae alle costrizioni di un’epoca in cui il tempo e lo spazio non sono più organizzati in vista di questa priorità.
Se bisogna correre bisogna farlo proprio in questa direzione sulle vie dell’amore compiendo quelle buone opere di cui si parla nel capitolo quarto della Regola, sulla via dei comandamenti con cuore dilatato, nella preghiera, alle ore degli Uffici, nell’obbedienza, nella sollecitudine verso i peccatori, per non perdere nessuna delle pecore del gregge, nell’accoglienza degli ospiti o di quanti bussano alla porta del monastero.
Si tratta di rompere con la mentalità del mondo e questo senza nessun disprezzo, ma coltivando una gerarchia di valori diversa.
Da parte nostra ci diamo veramente i mezzi per un simile apprendistato di un esercizio interiore come questo e di una formazione che vada in questo senso?
Nous sommes formés en « étant avec »
2
Lectio divina
Dom Maksymilian R. Nawara, osb
Abbé Président de la congrégation de l’Annonciation
Nous sommes formés en « étant avec »
« Le lendemain encore, Jean se trouvait là avec deux de ses disciples. Posant son regard sur Jésus qui allait et venait, il dit : “Voici l’Agneau de Dieu”. Les deux disciples entendirent ce qu’il disait, et ils suivirent Jésus. Se retournant, Jésus vit qu’ils le suivaient, et leur dit : “Que cherchez-vous?” Ils répondirent : “Rabbi – ce qui veut dire Maître, où demeures-tu ?”. Il leur dit : “Venez et vous verrez”. Ils allèrent donc, ils virent où il demeurait et ils restèrent auprès de lui ce jour-là. C’était vers la dixième heure (environ quatre heures de l’après-midi). » (Jean 1, 35-39)
Jean-Baptiste est le messager venu comme témoin de la lumière (Jn 1, 6), il a rendu droit le chemin pour le Seigneur (Jn 1, 23), afin de faire connaître l’Agneau de Dieu (Jn 1, 29). Il connaissait Jésus et l’attendait, mais il avait besoin de temps avec Jésus pour se former.
Dans l’évangile de Jean, le Baptiste en conversation avec les pharisiens révèle son identité : « Je ne suis pas le Messie » (Jn 1, 20-27). Très peu de temps après, l’Évangile dit : « Le lendemain », Jean rencontra Jésus et le reconnut, rendant ce témoignage à ses disciples : « Il est le Fils de Dieu » (Jn 1, 34). Malgré cela, après avoir entendu les nouvelles au sujet de Jésus, alors que Jean était en prison, il envoya des messagers à Jésus pour lui demander : « Es-tu celui que nous attendons ? » (Mt 11, 3). Nous voyons clairement qu’il avait besoin de temps avec Jésus pour se former.
Nous vivons à un moment de l’histoire où le progrès technologique nous permet de faire beaucoup de choses plus efficacement et plus rapidement. Nous avons accès à diverses choses beaucoup plus facilement. De plus, l’accès au savoir est à portée de main et l’enseignement à distance est disponible à l’intérieur de la clôture. Dans le même temps, un jour est toujours fait de vingt-quatre heures et une semaine, de sept jours. Il semblerait que nous ayons plus de temps et pourtant… nous vivons à une époque où nous manquons encore de temps. Même dans les monastères, on entend souvent des moines ou des moniales se plaindre de ne pas avoir assez de temps pour faire tout ce qu’ils voudraient.
L’Évangile nous arrête et attire notre attention sur les fondements de toute formation humaine. Il faut du temps pour qu’une rencontre devienne une connaissance. Il faut du temps pour qu’une connaissance soit un témoignage. Sans ce temps-là, le témoignage n’a aucune valeur car il manque d’expérience.
Allez avec Jésus
Deux disciples de Jean ont entendu leur Maître parler de l’Agneau de Dieu et sont allés à la suite de Jésus. Une nouvelle étape commence pour eux : les disciples de la Voix deviennent des disciples de la Parole.
Suivre Jésus, suivre le même chemin que le Fils, est une synthèse de l’expérience chrétienne. Le christianisme n’est pas un recueil de belles histoires ou d’impératifs moraux ; c’est la réalité de la personne de Jésus qui est suivie parce qu’elle est aimée : « Qui me suit aura la lumière de la vie et il ne marchera jamais dans les ténèbres » (Jn 8, 12).
En Jean 1, 36, Jésus se tourne vers ceux qui le suivent, et pour la première fois (dans l’évangile de Jean) il ouvre la bouche et prononce ses premières paroles, sous la forme d’une question : « Que cherchez-vous ? ». Cette question est cruciale pour de nombreuses raisons. Qu’est-ce que je recherche dans ma vie, dans mon travail, dans mes relations ? Qu’est-ce que je recherche dans l’Église, dans ma communauté monastique ? Toutes ces questions et bien d’autres sont importantes à poser à tous les niveaux de la formation monastique. La question de Jésus est également liée au temps, elle est très juste : « Je passe du temps sur ce que je recherche. Qu’est-ce que je recherche pour lequel j’investis du temps ? ».
La réponse des disciples n’est pas directe. Ils ne disent pas : « Nous cherchons ceci et cela », ils ne disent même pas : « Nous cherchons le Messie ». Ils posent une autre question : « Où demeures-tu, Rabbi ? ». Cette question exprime leur profond désir d’être avec Jésus. Et Jésus répond : « Venez et vous verrez ».
C’est là que commence le chemin du disciple de la Parole. Passer des idées, théories, déclarations, manifestations et slogans au partage de la vie. Partager ma vie, c’est partager mon temps avec quelqu’un, avec ce Quelqu’un que j’ai rencontré, avec Jésus. Il n’y a pas d’autre moyen de vraiment connaître Jésus que de partager du temps avec lui : dans la prière, la lectio divina et la fraternité. Mais cette vérité est étroitement liée à une réponse honnête à la question : « Qu’est-ce que je recherche ? » Qu’est-ce que je cherche pour lequel j’accepte de perdre du temps ?
Partage
L’Évangile dit : « Ils allèrent donc, ils virent où il demeurait et ils restèrent auprès de lui ce jour-là ». Encore une fois, nous revenons à ces affirmations clés : il faut du temps pour qu’une rencontre devienne une connaissance. Il faut du temps pour qu’une connaissance soit un témoignage. Le fruit du temps passé avec Jésus est le témoignage : « Nous avons trouvé le Messie », nous avons trouvé la lumière de la vie.
La formation monastique est principalement axée sur le partage. Partager la vie quotidienne, le temps, le travail, tout. Comment pouvons-nous apprendre à vivre ensemble si nous ne partageons pas quotidiennement du temps avec nos frères et sœurs ? Comment pouvons-nous connaître Jésus si ce n’est en partageant notre temps avec lui ? Une connaissance deviendra un témoignage avec le temps. Sur le chemin monastique, nous sommes formés en étant avec lui, ainsi qu’avec nos frères et sœurs.
« Venez et vous verrez, je veux tout vous dire. Je vous guiderai jour après jour. »
La formazione alla vita monastica
3
Prospettive
Dom Gregory Polan, OSB
Abate Primate
La formazione alla vita monastica
Lo sforzo essenziale della formazione monastica è la trasformazione del cuore. Per parlare del cuore umano la prospettiva biblica può essere un buon punto di partenza. Nella Bibbia, il cuore è il luogo di ciò che attualmente potremmo descrivere come la risultante della capacità mentale combinata con la coscienza emozionale.
La filosofia dell’antica Grecia, che ha fondato e influenzato il pensiero occidentale per molti secoli, separava il cuore e la mente in due funzioni distinte della persona. In quanto segue vorremmo adottare la visione biblica e considerare che il cuore e la mente possono funzionare in armonia.
Durante la formazione monastica acquisiamo molte informazioni concernenti le antiche tradizioni, i personaggi storici e il modo in cui alcuni uomini e donne hanno sviluppato e fatto evolvere la vita monastica lungo i secoli.
Quanto è così ricevuto deve certamente essere meditato affinché ognuno se ne appropri nel corso del tempo per farne una disposizione interiore. Non scegliamo forse di integrare le tradizioni, i valori e gli insegnamenti della formazione monastica nella nostra vita proprio per apportarvi i cambiamenti utili al bene della nostra anima? Questa unione armoniosa della mente e del cuore ha un’importanza duratura nella misura in cui consideriamo il processo di formazione come un’opera di tutta la vita. I suoi inizi sono dunque particolarmente importanti poiché stabiliscono il ritmo richiesto per la conversione e la trasformazione del nostro cuore lungo tutta la vita.
Accordare un ruolo centrale al nostro cuore è l’impresa di tutta la vita; si potrebbe dire che la formazione è un viaggio del cuore che, una volta iniziato, rimane attento al sussurro discreto della voce di Dio nella nostra vita. L’Antico e il Nuovo Testamento offrono entrambi degli esempi che possono aiutare a trovare un senso al cammino di formazione.
Nell’Antico Testamento, il popolo ebraico, nel deserto, ha progredito dalla schiavitù in Egitto verso la libertà nella Terra Promessa, sotto lo sguardo provvidente di Dio. Nel corso di questo viaggio ha conosciuto tutti gli aspetti dell’esperienza spirituale: tentazioni, frustrazioni, tradimenti, paura, misericordia, compassione, conversione e, infine, compimento della promessa di Dio (Dt 8,1-18). Avendo vissuto questi incontri con il proprio peccato e beneficiato della redenzione, è stato costituito da Dio come popolo della fede.
Nel Vangelo, Luca racconta la storia del mistero pasquale di Gesù nel contesto di un viaggio, una specie di racconto di pellegrinaggio spirituale. «[Mosè ed Elia] parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme. […] Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, egli prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme» (Lc 9,31.51). Lo stesso Gesù ha vissuto le medesime esperienze conosciute dai suoi antenati nella fede al tempo dell’Esodo: tentazione, frustrazione, tradimento, paura, misericordia, compassione, accettazione e infine compimento della promessa di Dio. Avendo condiviso totalmente la nostra condizione umana (eccetto il peccato), Gesù ha fatto il viaggio umano dalla nascita alla morte e infine alla risurrezione.
Chi vuole compiere veramente questo viaggio, chi vuol seguire Gesù sulla via della croce, deve subire una serie di trasformazioni, sempre più profonde, del proprio cuore. Il cuore è il luogo in cui il credere, il fervore e la convinzione iniziali devono infine fare spazio a un impegno a vita per questo viaggio.

La formazione alla vita monastica deve prendere in considerazione il mondo nel quale viviamo, la cultura nella quale siamo cresciuti, i valori che abbiamo inconsciamente assunto. I progressi tecnologici che accelerano il ritmo della vita, la civiltà dei consumi con la quale ci siamo forse involontariamente integrati, il livello di rumore al quale ci siamo abituati, tutto questo fa talmente parte della nostra vita che neppure ce ne rendiamo veramente conto. Ma se qualche problema tecnico rallenta od ostacola il nostro senso di progresso o di produttività, allora capiamo quale impatto può avere la tecnologia sulla nostra vita quotidiana. È solo quando dobbiamo fare a meno di qualcosa che realizziamo quanto ne fossimo dipendenti quando l’avevamo sempre a disposizione. È solo quando ci troviamo in un luogo o in un clima di silenzio assoluto che realizziamo il peso che aveva il rumore ora assente.
Queste prese di coscienza possono divenire occasioni di scoperta e di conoscenza di sé, momenti in cui possiamo fare a noi stessi delle domande di approfondimento: «Che cosa faccio della mia vita? Dove sto andando? In che modo penso di raggiungere i miei scopi? Ho in me quella pace interiore che mi permette di rispondere a queste domande tanto profonde?».
Penso che il periodo di formazione per noi più importante sia quello che si colloca tra i 20 e i 30 anni. Usciti dall’adolescenza, entriamo nell’età adulta; cominciamo a guardare verso l’avvenire e intravediamo le domande e i problemi che avranno un impatto sulla nostra vita in futuro.
È in questi anni che si producono in noi dei cambiamenti nel modo di vivere, di comportarci, di credere. Ci siamo diretti verso la vita monastica nel corso di questi anni di formazione, oppure più tardi, dopo che c’era già stata una formazione significativa; questi anni hanno un effetto duraturo sul modo in cui noi vediamo noi stessi, in cui vediamo il nostro mondo e, soprattutto, in cui vediamo Dio.
Sono gli anni in cui cambiano molte cose: nella nostra vita, nel nostro corpo, nella nostra visione del mondo, nelle nostre capacità intellettuali, nel modo di concepire certi valori. Nel mondo d’oggi, il termine «conversione» è carico di significato. Una conversione è spesso percepita come un altro modo di concepire la vita e il suo senso, di vederla in modo ormai molto diverso; il termine suggerisce un cambiamento radicale nella vita e nello sguardo.
Ma ci sono anche delle “piccole conversioni”, delle modifiche più discrete nel modo di vivere, dei leggeri cambiamenti di direzione che si vedranno solo dopo un lungo periodo, a volte soltanto alla fine di una vita. Alcune persone scelgono di non sposarsi e non formare una famiglia prima di essersi assicurati una solida carriera. Altre decideranno di conseguire dei titoli di studi universitari per avere un impiego prima di scegliere il matrimonio o la vita monastica. Ciò che è importante, è sapere fino a che punto la persona ha scrutato il proprio cuore per prendere queste decisioni. Conosce se stessa? Ha una vita interiore? Si è data il tempo e i mezzi (attenzione, cura) per conoscere il proprio cuore?
C’è una virtù che deve essere praticata durante il viaggio monastico nelle profondità del cuore: la fiducia. La virtù della fiducia non è scontata oggigiorno, in questo mondo di promesse non mantenute, di inganni, di corruzione di persone che occupano posti importanti, in questo mondo imperniato sulla tecnologia e che cambia profondamente a una velocità prima inimmaginabile. Tuttavia per il lavoro e il processo di formazione, la fiducia rimane essenziale.
La fiducia deve innanzitutto permetterci di fare un atto di fede importante: contare su, affidarsi a, e sottomettersi a un Dio il quale, pur rimanendo invisibile allo sguardo umano, compie meraviglie agli occhi di chi ha fede.
Abramo è uno dei modelli principali quanto alla fiducia. Sapendo soltanto che qualcosa nel suo intimo lo chiamava a dei cambiamenti importanti nella sua vita, Abramo si è fidato di quella voce interiore discreta; nostra ferma convinzione è che la voce interiore che l’ha spinto fosse la voce di Dio (Gen 12-14; 22,1-19). La Vergine Maria è pure un modello di fiducia in ogni istante della sua chiamata e della sua vita di credente (Lc 1,38; 2,19; 2,51b).
Impegnarsi in un cammino di formazione e rimanervi esige quel livello di fiducia che accetterà gli insegnamenti che ci vengono dati; essi provano gli spiriti e scrutano le profondità nel processo di appropriazione che lascia sempre il tempo per trovare il luogo del cuore. In questo processo di esplorazione interiore, la fiducia è una componente sempre essenziale: all’inizio si presentano inevitabilmente delle difficoltà, ma è normale, perché passiamo dalla prospettiva laica della vita a quella della tradizione monastica. Le due presentano gioie e difficoltà, ma si deve almeno prendere la decisione di partire fiduciosi per questo nuovo viaggio, quello della formazione monastica. Il salmista, d’altronde, offre un insegnamento semplice e diretto a tutti coloro che si trovano in questa situazione: «Se ascoltaste oggi la sua voce [di Dio]! Non indurite il cuore…» (Sal 94[95],7b-8a).
Quando una persona è pronta a fidarsi, ciò la fa crescere. La fiducia ci incoraggerà a prendere il tempo sufficiente per potere assimilare i nuovi e importanti valori che ci sono proposti. Ma spesso la fiducia esigerà anche di abbandonare certe cose di questo mondo. Affinché possa prodursi un’autentica evoluzione del cuore, dovremo abbandonare certi comportamenti e atteggiamenti del passato, anche se erano attraenti e seducenti. La fiducia può costituire una vera e propria sfida: può accadere che l’accettazione di quanto ci è chiesto sia esitante e transitoria perché abbiamo paura di perdere per sempre quanto ci era familiare e confortevole. Ciascuno di noi dovrà far fronte a dei momenti difficili in cui solo la fiducia e l’amore, che crescono lentamente ma sicuramente, ci faranno avanzare. Situazioni di questo tipo ci obbligano sovente a riconoscere che occorre obbedire.
La radice della parola «obbedienza» è latina: audire = ascoltare. Alcuni lessicografi suggeriscono una sfumatura: «ascoltare dall’interno». Sappiamo quanto questo «ascolto interiore» fosse importante per san Benedetto per quanto concerne la vita monastica: è il primo imperativo della Regola. Di più, san Benedetto ci ordina di «ascoltare con l’orecchio del cuore». Non è forse un ascolto di questo tipo ciò che costruisce le fondamenta dell’edificio interiore della fiducia? Attraverso il modo in cui ne parla nella Regola, possiamo capire quanta importanza san Benedetto accordasse alla virtù dell’obbedienza per assicurare la crescita e lo sviluppo della vita monastica. Scrive nel Prologo: «Attraverso il lavoro dell’obbedienza, potrai così ritornare a Colui dal quale ti eri allontanato cedendo alla pigrizia della disobbedienza» (v. 2). E verso la fine della Regola, al capitolo 71 – «L’obbedienza reciproca» – scrive: «L’obbedienza è una benedizione; i fratelli (le sorelle) devono sentire il bisogno non solo di offrirla all’abate, ma anche di scambiarsela tra di loro, convinti che unicamente per questa via dell’obbedienza andranno a Dio».
San Benedetto inizia la Regola descrivendo l’obbedienza come un lavoro, ma la termina descrivendola come una benedizione.
Dopo avere eseguito un compito veramente importante, si può considerare l’obbedienza come una benedizione, come qualcosa che ci ha fatto crescere nella virtù, un’esperienza di vita nuova. Gradino per gradino, esperienza dopo esperienza, cresciamo verso un’obbedienza del cuore, favorita dalla fiducia che cresce in noi.
La Lettera agli Ebrei presenta l’obbedienza di Gesù per ispirarci e incoraggiarci: «Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono» (Eb 5,8-9). È sorprendente dover meditare su questo: Gesù ha dovuto imparare l’obbedienza! Il testo ci insegna anche che l’obbedienza di Gesù è per noi redentrice. Non è difficile capire che anche la nostra obbedienza può essere redentrice, nella nostra vita e in quella degli altri. Nella sua umanità, Gesù, come noi, ha compreso e accettato l’obbedienza verso colui che egli chiamava Abbà, come pure verso i genitori ai quali il Padre lo aveva affidato. Riprendiamo il brano in cui il giovane Gesù resta a Gerusalemme per intrattenersi con i dottori della Legge e i suoi genitori lo cercano ansiosamente per tre giorni. Quando, preoccupati per lui, i suoi genitori lo interrogano, egli afferma che quanto è avvenuto fa parte del piano di Dio su di lui, il che è sovente tradotto: «Devo occuparmi delle cose del Padre mio» (Lc 2,49). Il testo conclude: «Scese dunque con loro e venne a Nazaret e stava loro sottomesso. Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore» (Lc 2,51). Ci colpiscono due elementi: l’obbedienza di Gesù, uomo-Dio, ai suoi genitori umani, e l’identificazione del cuore di Maria come il luogo della sua meditazione su questo avvenimento, avvenimento carico di mistero sia per le parole scambiate che per l’esperienza vissuta. Gesù, nella sua umanità ci è presentato in modo tale che possiamo constatare la crescita avvenuta in lui verso quella maturità perfetta che lo porta a confidare nella volontà di Dio come la via buona per la propria vita. La nuova umanità di Gesù è quaggiù il nostro fine ultimo.
Predicando i ritiri, ho spesso spiegato quanto sia importante trascorrere delle giornate di tranquilla riflessione per ascoltare il proprio cuore. Tuttavia, ed è sorprendente, il cuore, il centro del nostro essere, è il luogo in cui a volte scegliamo di andare, a volte di evitare di andare, e perfino, in certi casi, di resistere alla possibilità di andarvi. Ma è essenziale fin dagli inizi della formazione discendere nel più profondo del proprio cuore, darsi un ritmo di vita che ci spinga a ritornarvi; altrimenti corriamo il rischio di separare la nostra vita esteriore dal nostro io più profondo, e anche da Dio… Una delle cose più tristi che possa capitare nel viaggio della vita consiste nell’evitare e perfino nel rifiutare la conoscenza di se stessi. Cadere in questa situazione può renderci stranieri a noi stessi. Torniamo invece tante e tante volte al nostro cuore, nella preghiera, nelle prove, nelle benedizioni, ricerche, smarrimenti, dubbi e – sì! – anche nei nostri peccati: vi troveremo il Dio che ci ama infinitamente.
Questo amore si rivelerà nel conforto divino che ci porta, nella consolazione e nell’insegnamento, altri benefici e benedizioni. Ci mette in relazione con quel Dio che ci ha dato la vita e continua ad aiutarci. Il vero cammino della formazione è ben espresso nella preghiera del salmista: «Il mio cuore ripete il tuo invito: “Cercate il mio volto!”. Il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto» (Sal 26[27],8-9a). Anche nei momenti in cui il volto di Dio può sembrare nascosto, possiamo volgerci verso il cuore e trovarvi il Dio d’amore e di misericordia sempre pronto a riceverci e a rinnovarci.
La terre féconde de la formation monastique
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Perspectives
Dom Mauro-Giuseppe Lepori
Abbé général OCist