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Nexus, oct.-nov. 2025

  • Isabelle DESARNAUD
  • 2 giorni fa
  • Tempo di lettura: 4 min

L'evento più grande – non solo del mese scorso ma in realtà da molto tempo – è stata la visita di Papa Leone XIV qui a Sant’Anselmo l'11 novembre. L'occasione era il 125° anniversario della dedicazione della nostra chiesa abbaziale nel 1900. A quel tempo, Papa Leone XIII avrebbe certamente voluto essere presente, ma poiché la Questione Romana, cioè il rapporto tra la Santa Sede e il Regno d'Italia, non era ancora stata risolta, non poteva lasciare il Vaticano. Abbiamo pensato che il suo omonimo Papa Leone XIV potesse raccogliere il testimone e lo abbiamo invitato – e con nostra grande sorpresa e gioia ha accettato. Abbiamo avuto circa due mesi per prepararci, e lo abbiamo fatto, sistemando alcuni aspetti di Sant’Anselmo, preparando una degna liturgia benedettina, abbellendo la nostra sacrestia, e ricordando ciò che i Papi hanno significato per la nostra casa in passato.

Papa Leone XIV si è fermato qui di ritorno da un giorno di riposo a Castel Gandolfo. È apparso rilassato e di ottimo umore, come si addiceva alla nostra liturgia che, nel migliore stile benedettino, era solenne ma senza la rigidità che alcuni invariabilmente associano alle Messe Papali. Questa potrebbe essere stata la prima volta che un Romano Pontefice ha celebrato Messa a Sant’Anselmo. Sappiamo che Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II sono venuti nella casa, ma non hanno presieduto un'Eucaristia.

La Messa è stata trasmessa in diretta su diversi canali ed è ancora disponibile su YouTube.

Vorrei evidenziare due elementi dell'omelia pronunciata da Papa Leone XIV l'11 novembre che mi hanno toccato in modo particolare. Il primo è l'immagine del cuore. Il Papa ha parlato di Sant’Anselmo come di «una realtà che dovrebbe aspirare a diventare un cuore pulsante nel grande corpo del mondo benedettino». A essere sincero, non avrei osato esprimerlo in quel modo, per due ragioni.

La prima ha a che fare con la sensibilità benedettina. All'inizio, la fondazione di Sant’Anselmo e della Confederazione Benedettina non incontrò entusiasmo ovunque. Non molto tempo fa, l'archivista di Göttweig mi ha mostrato una corrispondenza del 1913 in cui diversi abati speravano che l'imminente morte dell'Abate Primate de Hemptinne potesse fornire l'opportunità di «smantellare» una Confederazione che consideravano un'impresa non benedettina. La storia ha preso un'altra direzione, e oggi, l'esistenza sia della Confederazione che della nostra casa a Roma è considerata quasi ovunque una benedizione. Eppure non dovremmo mai nascondere un fatto semplice: la vera vita benedettina si svolge nei monasteri stessi, nelle grandi abbazie e nei piccoli priorati, in comunità sparse in così tante regioni del mondo.

La mia seconda esitazione deriva da un avvertimento frequentemente dato da Papa Francesco. Il compianto Papa ci metteva spesso in guardia dallo sviluppare una «mentalità da quartier generale», esortandoci invece a guardare verso le periferie. Ho sempre trovato questo molto utile. In qualsiasi centro di governo — forse anche qui nella Curia Romana — c'è la tentazione di immaginare che ciò che accade lì sia ciò che conta veramente. Nel mondo della politica questo può essere il caso a Washington, Parigi, o Palazzo Chigi, ma la Chiesa vive nei suoi membri, non in un quartier generale. Il vero centro è Cristo, non Roma.

Per queste ragioni ho ascoltato le parole di Papa Leone con una certa apprensione. Eppure, il Papa le ha pronunciate, e sono parole belle, parole preziose. Lui stesso ha collegato l'immagine del cuore con l'immagine biblica del tempio da cui sgorgano acque vive, portando vita e fecondità. C'è verità in questo, ho pensato, e non dovremmo nascondere la luce di Sant’Anselmo. Certo, non siamo un quartier generale internazionale in senso militare o amministrativo. Ma siamo un luogo di incontro e di esperienza, un luogo in cui si tessono relazioni, dove le idee nate nel nostro mondo benedettino possono essere condivise e diffuse. L'immagine del cuore evoca la circolazione del sangue: una vitalità condivisa, un'energia che non si esaurisce ma può raggiungere anche le parti più remote del mondo benedettino. In questo senso, voglio affermare con gioia ed entusiasmo ciò che Papa Leone ha detto una settimana fa.

Un secondo elemento dell'omelia mi ha colpito profondamente: la frase del Papa secondo cui, sin dalle sue origini, il monachesimo è stato «una realtà di frontiera». Egli ha scritto: «Infatti, uomini e donne sono stati spinti dalla vocazione monastica a impiantare focolai di preghiera, lavoro e carità nei luoghi più remoti e impervi, spesso trasformando aree desolate in terreni fertili e ricchi, dal punto di vista agricolo ed economico, ma soprattutto spirituale». Per me, questo è risuonato con il tema della periferia di Papa Francesco.

Papa Leone ha espresso questo in termini di «frontiere». Mi ha ricordato il filosofo e teologo tedesco-americano Paul Tillich. Egli stesso era un Grenzgänger, uno che vive al confine, e ha sviluppato il concetto teologico di Grenzüberschreitung, l'attraversamento o il superamento dei confini. Per Tillich, l'essere umano vive sempre al confine tra il finito e l'infinito, il condizionato e l'incondizionato, il tempo e l'eternità, il sé e l'Altro. Il confine non è un muro ma un luogo teologico, dove la finitezza umana incontra il divino.

La Rivelazione stessa è il supremo attraversamento di confine: Dio trascende la distanza verso l'umanità, e l'umanità è resa capace di trascendere verso Dio. L'Incarnazione è il momento decisivo in cui il confine tra divino e umano viene attraversato. In Cristo, Tillich vede il «Nuovo Essere», in cui tutti i confini essenziali sono attraversati: tra Creatore e creazione, cielo e terra, eternità e tempo, sacro e profano, puro e impuro, il popolo eletto e le nazioni. La Resurrezione è l'attraversamento della frontiera finale, la morte stessa. La Chiesa, per Tillich, è la comunità che continua questo movimento oltre ogni confine — geografico, linguistico, culturale, politico, religioso. Come sapete, provengo dalla tradizione dei Benedettini Missionari, e questa riflessione è stata profondamente significativa per noi quando consideriamo la nostra vocazione missionaria.

Le parole di Papa Leone mi hanno anche fatto ripensare la vita monastica stessa alla luce di questo attraversamento di confine. La vita comunitaria è già un movimento oltre l'isolamento dell'individuo; i nostri voti monastici lo esprimono ancora più chiaramente: l'obbedienza significa trascendere la volontà propria; la stabilità è andare oltre l'agitazione e l'irrequietezza interiori; la povertà è andare oltre la sicurezza che vogliamo costruire per noi stessi; e la castità significa superare il nostro impulso a possedere l'altro. In questo senso, la descrizione del monachesimo come realtà di frontiera è incredibilmente ricca. Grazie, Papa Leone!


Dom Jeremias Schröder, Abate primate

© Vatican Media.
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